Verbale redatto da Silvia Callegari
Ferrara, 23 gennaio 2016
“L'AMICA GENIALE”
di Elena Ferrante
libro proposto da Silvia
Partecipanti al circolo presenti: Francesca, Cecilia, Anna, Elena, Laura, Vale, Giorgio, Betta (uditrice), Silvia (moderatrice).
La riunione si apre affrontando il tema preannunciato dalla stessa autrice nel titolo del romanzo: l'amicizia. Ma chi è davvero, tra le due protagoniste, Lila e Lenù, delle quali il romanzo, primo di una quadrilogia, narra l'infanzia e l'adolescenza, l'”amica geniale”? Lila è senza dubbio la più dotata: ribelle, intraprendente e ambiziosa, impara latino e greco da autodidatta, frenata solo dalla povertà della famiglia che non le permetterà di proseguire gli studi; Lenù, dal carattere tranquillo e obbediente, cui è data l'opportunità di studiare, deve molto del suo successo alla diligenza e allo spirito di sacrificio con cui affronta la scuola. Ma è Lila stessa ad affermare: “Tu sei la mia amica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine.” E allora, forse la risposta a quella domanda è meno scontata di quello che si possa immaginare. Nella loro contrapposizione, anche fisica, e nella loro complementarietà entrambe sono geniali come due parti di un'unica persona.
L'amicizia femminile è indagata a fondo dall'autrice che, lungi dal tratteggiare un sentimento idilliaco, ne mette in rilievo la complessità, tra litigi, sfide e momenti di distacco. Il rapporto tra Lenù e Lila assume spesso le connotazioni di una sfida che contrappone le due protagoniste: il loro legame inizia appunto con un gesto di cattiveria, di sfida da parte di Lila che getta la bambola di Lenù nello scantinato (pag. 50). La rivalità tra le due sarà ricorrente nel corso della lettura (lo stesso “sparire” di Lila contrapposto al “rimanere” e scrivere la storia di Lenù; il lancio della sfida a Don Achille, ..) ma senza avere necessariamente una connotazione negativa: sarà la rivalità a spingere Lenù a dare il meglio di sé negli studi “non studiavo tanto per la scuola quanto per lei” (pag. 108). Lenù è divisa tra amore e odio: la scena in cui aiuta Lila a prepararsi in vista delle nozze l'amicizia assume i tratti di un innamoramento. Lei vede in Lila ciò che gli altri non riescono a vedere: “Mi dedicai allo studio e a molte altre cose difficili, lontane da me, solo per restare al passo con quella bambina terribile e sfolgorante. Sfolgorante per me. Per tutti gli altri scolari Lila era solo terribile.” (p. 43).
L'amicizia di Lenù e Lila è continuamente influenzata dal contesto socio-culturale nel quale sono “immerse”: il rione. La contrapposizione tra il dentro e il fuori è anch'esso un tema ricorrente nel romanzo: un tunnel collega, anche simbolicamente, il rione alla Napoli benestante con la quale ci può essere solo scontro (pag. 189). La cultura sembra essere l'unico mezzo per affrancarsi dalla miseria, morale e materiale, del rione: solo Lenù, infatti, grazie ai suoi studi, riuscirà a sfuggire ad una sorte che, per gli abitanti del rione, sembra ineluttabile. Lila, che pure con il matrimonio riuscirà a raggiungere un benessere materiale, rimarrà intrappolata nelle dinamiche del rione. Già il prologo annuncia il fallimento di Lila “non era mai uscita da Napoli in tutta la sua vita” (p. 16).
La maestra delle due protagoniste sembra essere la prima ad intuire, dalla lettura de “La fata blu”, il romanzo scritto da Lila, che l'alunna Cerullo, pur dotata di una vivace intelligenza è destinata a rimanere inesorabilmente imprigionata nel rione.
Il matrimonio di Lila, che segna il definitivo abbandono della speranza di una vita diversa, sembra segnare una frattura anche tra le due protagoniste: “Ma io, con un movimento contrario a quello di Lila e Stefano che ora stavano andando a prendere posto al centro della tavolata tra i coniugi Solara e la coppia di Firenze, puntai dritto verso l'ingresso, verso Alfonso, Marisa, Nino”. Lenù si distacca da Lila, non le appartiene più. Il matrimonio è per Lenù una sorta di smarginatura: ciò che accade a Lila e che le permette di vedere ciò che la circonda in tutto il suo orrore. “Diceva che in quelle occasioni si dissolvevano all’improvviso i margini delle persone e delle cose” e tutto ciò che la circondava e che le era familiare diveniva per Lila insopportabile come, appunto, se fosse capace, in quella particolare circostanza, di coglierne l’essenza più profonda. Persino la figura dell’amato fratello, Rino, si rivela a Lila, con la smarginatura, per ciò che è: “una forma animale tozza, tarchiata, la più urlante, la più feroce, la più avida, la più meschina.” (p. 86).
Nel costante tentativo di affrancarsi dalla povertà culturale del rione, simbolico è l'acquisto del romanzo “Piccole donne”: Lila e Lenù investono la piccola somma donata da Don Achille nell'acquisto del romanzo di cui, nelle loro appassionate letture, arriveranno perfino a consumare le pagine. Il custodire il libro, il leggerne segretamente le pagine nascondendolo al rione, per i cui abitanti la lettura altro non può essere che una perdita di tempo, le unirà, suggellando la loro amicizia e determinandole a divenire, un giorno, scrittrici.
Molti sono i personaggi femminili del romanzo: si tratta però “donne contaminate dagli uomini” “rabbiose come cagne assetate” (pag. 33). La madre di Lenù è, per la stessa protagonista, una motivazione per fuggire dal rione. Anche fisicamente, la madre di Lenù rispecchia la miseria del luogo in cui vive: “Mi repelleva il suo corpo, cosa che probabilmente intuiva. Era biondastra, pupille azzurre, opulenta. Ma aveva l'occhio destro che non si sapeva mai da che parte guardasse. E anche la gamba destra non le funzionava, la chiamava la gamba offesa. Zoppicava e il suo passo mi inquietava, specie di notte, quando non poteva dormire....” (pag. 40). Sono donne infelici, vittime della povertà, dell'ignoranza, della società che le ritiene inferiori (“Allora perché deve studiare tua sorella che è femmina?”, vittime di uomini che le considerano oggetti (“Restai a bocca aperta. Fernando si affacciò continuando a strillare minacce orribili contro la figlia. L'aveva lanciata come una cosa.” (pag. 78).
L’incontro si chiude con la votazione sul romanzo:
Francesca 10
Cecilia 8
Anna 8 e mezzo
Elena 8
Laura 9
Vale 8 e mezzo
Giorgio 9
Laura propone il titolo del libro per il prossimo incontro: “Possessione” di Antonia Susan Byatt.
Le indicazioni delle pagine del libro da cui sono tratti i brani citati si riferiscono alla ristampa del romanzo dell’agosto 2015 “Edizioni E/O”.
VERBALI degli Incontri
Re: VERBALI degli Incontri
Molinella, 21 Maggio 2016
POSSESSIONE
DI ANTONIA S. BYATT
Libro scelto da Laura
Verbale di Valentina
Letto da Giulia e Laura . Non terminato da Valentina, Elena e Giorgio, presenti come uditori.
Verbalizza Valentina
L'ambientazione iniziale è Londra negli anni ‘90. Il ricercatore Roland Mitchell, consultando un testo appartenuto a Randolph Henry Ash ( poeta inventato dall’autrice), trova due bozze di lettere destinate a una sconosciuta signora incontrata da Ash durante una colazione a casa di un conoscente. Roland decide di rubare le due lettere per proseguire le ricerche.
Con questo furto Roland inizia una indagine storica di un rapporto ( fino ad allora ignoto all’ambiente letterario) fra Ash e la donna destinataria delle lettere rubate, che si scopre essere la scrittrice Christabel La Motte (anche questa inventata dall’autrice).
Per le sue ricerche Roland coinvolge la Dott.ssa Maud Bailey, studiosa della poetessa Christabel La Motte (e come si scoprirà, sua discendente), assieme alla quale fa visita ad un discendente di La motte e scopre una corrispondenza segreta fra i due poeti.
A partire da oltre la metà del libro la narrazione si sposta in epoca vittoriana, descrivendo parte di ciò che realmente avvenne fra il poeta Ash e Christabel La Motte, uscendo quindi dalle sole rivelazioni della corrispondenza scoperta nella prima metà del libro. Questo cambio di tempo ha stupito tutti i lettori. Giulia dice che fino a questo momento del libro non era riuscita a provare molte emozioni che invece si aspettava di provare leggendo una storia come questa. I personaggi principali infatti non le sembrano indagati molto. Viene invece lasciato molto spazio, nella corrispondenza, a pesanti commenti di opere e stili.
Giulia sottolinea la gravità dell’evento che dà il via a tutta la ricerca, che è un furto in una biblioteca, azione estremamente disonesta, soprattutto da parte di chi lavora nel campo della letteratura.
Viene lasciato un ampio spazio alle poesie e alle lettere dei due scrittori, da cui emerge l’abilità e la fantasia dell’autrice che inventa fiabe, poesie, parti di poemi, le lettere private fra i due scrittori e i diari della vita quotidiana della moglie di Ash. L’autrice si è impegnata in un lavoro grandissimo sulle poesie, che per Giulia e Laura ha rischiato di far perdere il filo logico degli avvenimenti. Laura commenta che spesso dai diari ci si aspetta di trovare degli indizi, ma dopo aver letto pagine e pagine ci si accorge che non emergono informazioni aggiuntive.
Le storie di paura trascritte dal diario della cugina di La Motte per Elena sono “inquietanti e bellissime”, come anche le fiabe di Christabel. Le fiabe si leggono con piacere. Tutti hanno trovato pesanti invece le poesie di Ash.
Giulia, a proposito delle lettere, contesta la scelta stilistica dell’autrice di utilizzare con troppa frequenza un trattino di cui non si capisce il senso. Giorgio aprendo il libro in una delle pagine della corrispondenza, commenta che secondo lui a volte il trattino è utilizzato come inciso, a volte come connettivo.
Sempre per Giulia il finale è “rocambolesco e caotico” ed è tagliato in poche righe. Sembra “tirato” l’incontro fra Roland e l’avvocato, che fornisce un aiuto inaspettato, come sembra “tirato” l’incontro finale. Ci sono troppi personaggi che compaiono tutti assieme. Anche il clima contribuisce a creare il caos con un uragano. Eppure, in tutto questo caos, avviene l’apertura della lettera finale senza tensione,“molto sterilmente”.
Per Laura lascia molta tristezza il fatto che il poeta Ash creda che Christabel abbia ucciso la loro unica figlia, anche se alla fine si intuisce che Ash e La Motte si sano incontrati e abbiano chiarito ogni questione.
Il titolo: Possessione è nominata da Christabel a Randolph Ash nella corrispondenza.
Secondo Laura può essere anche intesa come il sentimento di Ellen, convivente di Christabel, verso Christabel. “Viene interpretato nel senso di essere proprietà di qualcun altro.”
Voti: 6 per Giulia e 6 per Laura. La sufficienza dovuta all’apprezzamento per il grandissimo lavoro sulle poesie e i testi.
POSSESSIONE
DI ANTONIA S. BYATT
Libro scelto da Laura
Verbale di Valentina
Letto da Giulia e Laura . Non terminato da Valentina, Elena e Giorgio, presenti come uditori.
Verbalizza Valentina
L'ambientazione iniziale è Londra negli anni ‘90. Il ricercatore Roland Mitchell, consultando un testo appartenuto a Randolph Henry Ash ( poeta inventato dall’autrice), trova due bozze di lettere destinate a una sconosciuta signora incontrata da Ash durante una colazione a casa di un conoscente. Roland decide di rubare le due lettere per proseguire le ricerche.
Con questo furto Roland inizia una indagine storica di un rapporto ( fino ad allora ignoto all’ambiente letterario) fra Ash e la donna destinataria delle lettere rubate, che si scopre essere la scrittrice Christabel La Motte (anche questa inventata dall’autrice).
Per le sue ricerche Roland coinvolge la Dott.ssa Maud Bailey, studiosa della poetessa Christabel La Motte (e come si scoprirà, sua discendente), assieme alla quale fa visita ad un discendente di La motte e scopre una corrispondenza segreta fra i due poeti.
A partire da oltre la metà del libro la narrazione si sposta in epoca vittoriana, descrivendo parte di ciò che realmente avvenne fra il poeta Ash e Christabel La Motte, uscendo quindi dalle sole rivelazioni della corrispondenza scoperta nella prima metà del libro. Questo cambio di tempo ha stupito tutti i lettori. Giulia dice che fino a questo momento del libro non era riuscita a provare molte emozioni che invece si aspettava di provare leggendo una storia come questa. I personaggi principali infatti non le sembrano indagati molto. Viene invece lasciato molto spazio, nella corrispondenza, a pesanti commenti di opere e stili.
Giulia sottolinea la gravità dell’evento che dà il via a tutta la ricerca, che è un furto in una biblioteca, azione estremamente disonesta, soprattutto da parte di chi lavora nel campo della letteratura.
Viene lasciato un ampio spazio alle poesie e alle lettere dei due scrittori, da cui emerge l’abilità e la fantasia dell’autrice che inventa fiabe, poesie, parti di poemi, le lettere private fra i due scrittori e i diari della vita quotidiana della moglie di Ash. L’autrice si è impegnata in un lavoro grandissimo sulle poesie, che per Giulia e Laura ha rischiato di far perdere il filo logico degli avvenimenti. Laura commenta che spesso dai diari ci si aspetta di trovare degli indizi, ma dopo aver letto pagine e pagine ci si accorge che non emergono informazioni aggiuntive.
Le storie di paura trascritte dal diario della cugina di La Motte per Elena sono “inquietanti e bellissime”, come anche le fiabe di Christabel. Le fiabe si leggono con piacere. Tutti hanno trovato pesanti invece le poesie di Ash.
Giulia, a proposito delle lettere, contesta la scelta stilistica dell’autrice di utilizzare con troppa frequenza un trattino di cui non si capisce il senso. Giorgio aprendo il libro in una delle pagine della corrispondenza, commenta che secondo lui a volte il trattino è utilizzato come inciso, a volte come connettivo.
Sempre per Giulia il finale è “rocambolesco e caotico” ed è tagliato in poche righe. Sembra “tirato” l’incontro fra Roland e l’avvocato, che fornisce un aiuto inaspettato, come sembra “tirato” l’incontro finale. Ci sono troppi personaggi che compaiono tutti assieme. Anche il clima contribuisce a creare il caos con un uragano. Eppure, in tutto questo caos, avviene l’apertura della lettera finale senza tensione,“molto sterilmente”.
Per Laura lascia molta tristezza il fatto che il poeta Ash creda che Christabel abbia ucciso la loro unica figlia, anche se alla fine si intuisce che Ash e La Motte si sano incontrati e abbiano chiarito ogni questione.
Il titolo: Possessione è nominata da Christabel a Randolph Ash nella corrispondenza.
Secondo Laura può essere anche intesa come il sentimento di Ellen, convivente di Christabel, verso Christabel. “Viene interpretato nel senso di essere proprietà di qualcun altro.”
Voti: 6 per Giulia e 6 per Laura. La sufficienza dovuta all’apprezzamento per il grandissimo lavoro sulle poesie e i testi.
Re: VERBALI degli Incontri
Ferrara 10 settembre 2016
TROPICO DEL CANCRO
Henry Miller
Libro scelto da Valentina
Partecipanti all’incontro: Elena, Giulia. Partecipanti in qualità di uditori: Anna, Francesca, Giorgio.
Difficile riassumere il libro per i presenti che non hanno terminato la lettura, poiché si tratta di un racconto surreale, dove il tempo della storia non è ben definito e i momenti descritti sembrano accavallarsi di continuo senza seguire rigidamente lo scorrere del tempo.
Il romanzo è biografico, farcito di fatti probabilmente realmente accaduti raccontati in maniera fantastica.
L’autore parla in prima persona della sua esperienza di vita parigina, infatti il protagonista è Henry, un giovane artista di età compresa tra i 20 e i 30 anni (Miller ne aveva 38 al tempo del suo trasferimento a Parigi), che vive di espedienti durante i primi decenni del ‘900 bazzicando da un salotto all’altro della Belle Époque parigina. Mentre la caratterizzazione temporale, delle ore della giornata e degli anni, rimane nebulosa, la città di Parigi è ben caratterizzata e dalle descrizioni si posso riconoscere precisamente i luoghi reali.
Henry è colto, sa di libri, musica, teatro e riesce a trasmetterlo alla gente, che lo cerca per questo. Essendo ben consapevole di questa sua dote, la sfrutta per trarne vantaggi tangibili come un pasto, un alloggio o un aiuto economico, quasi prostituendosi vendendo la sua cultura. La gente lo usa per questa sua caratteristica, chiamandolo per animare i salotti della Parigi bene, come “consulente artistico” o come persona di compagnia e lui riesce così a sopravvivere senza un lavoro e altri mezzi di sostentamento. Frequenta amici artisti o impegnati in politica per poter avere un tetto sotto cui dormire e del cibo, ma al contempo li disprezza, come anche il resto delle persone. Si sente superiore rispetto a tutti gli altri e al contempo si permette di fare cose degradanti: a differenza delle altre persone, riconosce il degrado nella società, ma nonostante ciò infierisce degradando ancora di più le persone e sé stesso.
I personaggi rispecchiano le persone che Miller ha incontrato durante il periodo in cui ha vissuto a Parigi, come per esempio gli amici artisti o l’uomo che lavorava al giornale del quale prende il posto a seguito della sua morte; Henry Miller infatti ha lavorato davvero a un giornale in quegli anni. L’ambiente descritto è quello degli artisti parigini negli anni ’30: lascivo, depresso e debosciato: vivono di espedienti, si ubriacano nei bar, non cercano l’amore, ma solo il piacere sessuale talvolta perverso.
“L’artista deve rovesciare i valori costituiti e fare del caos” è la frase più rappresentativa di questo modo di vivere. Agiscono secondo una a-morale: per esempio rubano soldi a una prostituta che ha la madre malata (la quale prostituta probabilmente sta mentendo sulla malattia della madre), durante la messa passano davanti all’altare deridendo il prete, sostengono che quando una ragazza rimane incinta allora quello è il momento di lasciarla.
La famiglia non ha nessuna importanza, come dimostrato dal fatto che lo stesso Henry abbandona la moglie a New York per partire da solo verso l’Europa, oppure il fatto stesso di avere rapporti sessuali puramente occasionali, anche con le donne dei propri “amici”.
I temi sono la precarietà della vita, la lascività e la sregolatezza, le malattie (citati moltissime volte nel testo la sifilide e lo scolo che pare mietessero molte vite all’epoca), la depressione, la fame e il cibo, le donne viste sempre nei ruoli di prostitute o stupide.
L’autore usa di proposito uno stile confuso, volgare, crudo, che rispecchia la vita del protagonista a quel tempo. In particolare, nella prima parte del libro con un linguaggio osceno e addirittura fastidioso, vengono descritte nel dettaglio scene sessuali con la tecnica del flusso di coscienza, come se il protagonista fosse sempre ubriaco. Poi, a circa metà del libro, si nota un cambio di registro, la descrizione diventa più vicina al racconto sequenziale, ma sempre mischiando l’ubriachezza e la vita normale, passando da narrazione a sogno, saltando nel tempo e nello spazio (da Parigi a New York e viceversa) facendo così perdere il filo al lettore. Si nota che il punto in cui cambia il registro coincide con il momento in cui Henry viene assunto al giornale, quindi ha qualche soldo per mantenersi, beve di meno e riacquista lucidità mentale.
Solo alla fine del libro si riesce a ricostruire la cronologia del racconto e del vissuto di Henry.
Lo stile è complessivamente ricercato, anche se il lessico è volgare e crudo, si trovano immagini ricche e ricercate, molto originali. È un libro da leggere con continuità e concentrazione, non 10 minuti alla sera prima di addormentarsi (!), se si vuole cogliere appieno.
Il titolo è emblematico e si sa che fa riferimento al Cancro che “è la malattia della civiltà” (cit. Miller). Dopo questa lettura sarebbe interessante leggere il prosieguo Tropico del Capricorno.
Votazioni
Giorgio: voto 8 per lo stile, difficoltosa la lettura.
Elena: voto complessivo 6. Molto buono lo stile di scrittura (voterebbe 8), ma molto difficile capire il racconto (voterebbe 4).
Valentina: voto 6,5 poiché la lettura risulta faticosa, il protagonista risulta antipatico per il senso di superiorità e sfruttamento che mostra.
TROPICO DEL CANCRO
Henry Miller
Libro scelto da Valentina
Partecipanti all’incontro: Elena, Giulia. Partecipanti in qualità di uditori: Anna, Francesca, Giorgio.
Difficile riassumere il libro per i presenti che non hanno terminato la lettura, poiché si tratta di un racconto surreale, dove il tempo della storia non è ben definito e i momenti descritti sembrano accavallarsi di continuo senza seguire rigidamente lo scorrere del tempo.
Il romanzo è biografico, farcito di fatti probabilmente realmente accaduti raccontati in maniera fantastica.
L’autore parla in prima persona della sua esperienza di vita parigina, infatti il protagonista è Henry, un giovane artista di età compresa tra i 20 e i 30 anni (Miller ne aveva 38 al tempo del suo trasferimento a Parigi), che vive di espedienti durante i primi decenni del ‘900 bazzicando da un salotto all’altro della Belle Époque parigina. Mentre la caratterizzazione temporale, delle ore della giornata e degli anni, rimane nebulosa, la città di Parigi è ben caratterizzata e dalle descrizioni si posso riconoscere precisamente i luoghi reali.
Henry è colto, sa di libri, musica, teatro e riesce a trasmetterlo alla gente, che lo cerca per questo. Essendo ben consapevole di questa sua dote, la sfrutta per trarne vantaggi tangibili come un pasto, un alloggio o un aiuto economico, quasi prostituendosi vendendo la sua cultura. La gente lo usa per questa sua caratteristica, chiamandolo per animare i salotti della Parigi bene, come “consulente artistico” o come persona di compagnia e lui riesce così a sopravvivere senza un lavoro e altri mezzi di sostentamento. Frequenta amici artisti o impegnati in politica per poter avere un tetto sotto cui dormire e del cibo, ma al contempo li disprezza, come anche il resto delle persone. Si sente superiore rispetto a tutti gli altri e al contempo si permette di fare cose degradanti: a differenza delle altre persone, riconosce il degrado nella società, ma nonostante ciò infierisce degradando ancora di più le persone e sé stesso.
I personaggi rispecchiano le persone che Miller ha incontrato durante il periodo in cui ha vissuto a Parigi, come per esempio gli amici artisti o l’uomo che lavorava al giornale del quale prende il posto a seguito della sua morte; Henry Miller infatti ha lavorato davvero a un giornale in quegli anni. L’ambiente descritto è quello degli artisti parigini negli anni ’30: lascivo, depresso e debosciato: vivono di espedienti, si ubriacano nei bar, non cercano l’amore, ma solo il piacere sessuale talvolta perverso.
“L’artista deve rovesciare i valori costituiti e fare del caos” è la frase più rappresentativa di questo modo di vivere. Agiscono secondo una a-morale: per esempio rubano soldi a una prostituta che ha la madre malata (la quale prostituta probabilmente sta mentendo sulla malattia della madre), durante la messa passano davanti all’altare deridendo il prete, sostengono che quando una ragazza rimane incinta allora quello è il momento di lasciarla.
La famiglia non ha nessuna importanza, come dimostrato dal fatto che lo stesso Henry abbandona la moglie a New York per partire da solo verso l’Europa, oppure il fatto stesso di avere rapporti sessuali puramente occasionali, anche con le donne dei propri “amici”.
I temi sono la precarietà della vita, la lascività e la sregolatezza, le malattie (citati moltissime volte nel testo la sifilide e lo scolo che pare mietessero molte vite all’epoca), la depressione, la fame e il cibo, le donne viste sempre nei ruoli di prostitute o stupide.
L’autore usa di proposito uno stile confuso, volgare, crudo, che rispecchia la vita del protagonista a quel tempo. In particolare, nella prima parte del libro con un linguaggio osceno e addirittura fastidioso, vengono descritte nel dettaglio scene sessuali con la tecnica del flusso di coscienza, come se il protagonista fosse sempre ubriaco. Poi, a circa metà del libro, si nota un cambio di registro, la descrizione diventa più vicina al racconto sequenziale, ma sempre mischiando l’ubriachezza e la vita normale, passando da narrazione a sogno, saltando nel tempo e nello spazio (da Parigi a New York e viceversa) facendo così perdere il filo al lettore. Si nota che il punto in cui cambia il registro coincide con il momento in cui Henry viene assunto al giornale, quindi ha qualche soldo per mantenersi, beve di meno e riacquista lucidità mentale.
Solo alla fine del libro si riesce a ricostruire la cronologia del racconto e del vissuto di Henry.
Lo stile è complessivamente ricercato, anche se il lessico è volgare e crudo, si trovano immagini ricche e ricercate, molto originali. È un libro da leggere con continuità e concentrazione, non 10 minuti alla sera prima di addormentarsi (!), se si vuole cogliere appieno.
Il titolo è emblematico e si sa che fa riferimento al Cancro che “è la malattia della civiltà” (cit. Miller). Dopo questa lettura sarebbe interessante leggere il prosieguo Tropico del Capricorno.
Votazioni
Giorgio: voto 8 per lo stile, difficoltosa la lettura.
Elena: voto complessivo 6. Molto buono lo stile di scrittura (voterebbe 8), ma molto difficile capire il racconto (voterebbe 4).
Valentina: voto 6,5 poiché la lettura risulta faticosa, il protagonista risulta antipatico per il senso di superiorità e sfruttamento che mostra.
Re: VERBALI degli Incontri
STORIA PROIBITA DI UNA GEISHA – una storia vera
Di Mineko Iwasaki, con Rande Brown
Incontro del 28 Gennaio 2017, a casa di Anna Vaccari, che ha proposto la lettura e modera la discussione.
Presenti: Francesca, Anna, Elena, Valentina, Giulia, Laura e Giorgio
Presente in qualità di uditrice: Cecilia
Anna si è resa conto di aver sempre proposto libri che raccontano di donne… Ha comprato anche il più famoso “Memorie di una geisha”, di Arthur Golden, tuttavia non è riuscita a terminarlo (“mi faceva venire rabbia”… cit.) perché è scritto da un americano che disonora e stravolge la figura della geisha. Golden la dipinge come una prostituta (oiran). Sicuramente la confusione tra geisha e oiran è dovuta al termine “mizuage”, usato sia per la cerimonia per la promozione di una maiko, sia per la deflorazione cerimoniale di una prostituta.
Il “nostro” libro, invece, seppur meno conosciuto, è molto più realista e descrive la vera realtà della geisha giapponese. Si tratta di una autobiografia scritta in prima persona dalla geisha più conosciuta e nota del Giappone. Mineko scrive la sua vita fino ai 30731 anni. Si concentra soprattutto sulla sua prima infanzia e adolescenza ( = fasi di formazione): sono anni pieni di studio e di lavoro in cui la protagonista si è privata di tutto, anche del riposo. Gli ultimi anni, invece, sono liquidati in poche pagine.
Mineko descrive la sua vita fuori e dentro la “okiya”, che è la “casa delle geishe”. Francesca fa notare come questa parola abbia una radice comune alla parola greca “casa” (oikia).
La figura di Mineko è quella di una ragazza molto inquadrata e devota all’arte, in particolar modo alla danza che ama profondamente. E’ indipendente economicamente e molto ricca come quasi tutte le sue compagne. E’ stata adottata in tenera età. L’adozione è una garanzia di continuità per la okiya. Mineko si è talmente focalizzata sulla sua attività che ha abbandonato tutto il resto: non aveva neanche idea di come funzionassero le più elementari faccende di casa. Quando va a vivere da sola, non sa neppure come si accende il gas per farsi il tè o non sa che il riso si compra e si mette nell’apposito contenitore.
Abbiamo discusso di quello che può sembrare un “uso strumentale” della stessa vita privata di Mineko per migliorarsi ulteriormente nel campo della danza. Mineko vuole innamorarsi, perché crede che da innamorata può danzare meglio e quindi perfezionare ancora di più il suo talento (Francesca). Per Laura Mineko vuole primeggiare non per egoismo, ma per essere accettata. Le compagne invidiose le facevano dispetti, quindi lei vuole migliorarsi ulteriormente. La sua originaria passione (la danza) diventa quasi una forma di ossessione; lei tende ad una perfezione estrema, di per sé irraggiungibile, e ha una attenzione esagerata per i dettagli (come aprire una porta, come aprire un ventaglio, come preparare un tè secondo un perfetto cerimoniale, p. 145 – cerimonia del tè).
Ci siamo chiesti perché, improvvisamente, Mineko lasci il lavoro da geisha. Sostanzialmente perché lei non condivideva la rigidità del sistema e le regole in cui le geishe erano confinate: potevano danzare solo in determinate occasioni; per insegnare dovevano aver seguito un determinato percorso… v. p. 288 in cui si descrive l’estrema rigidità del sistema.
Per Mineko la vita è bianca o nera. Non ci sono sfumature. Quindi o lavora fino a privarsi del sonno, oppure chiude l’okiya e vende tutto. Non c’è via di mezzo. E nell’immaginario collettivo sono un po’ così anche gli stessi giapponesi.
Quando si ritira dalla vita di geisha, Mineko è disorientata. Il suo alto grado di formazione non viene riconosciuto al di fuori del rigido sistema delle geishe. Lei era brava ad esibirsi, ma non vuoleva gestire una okiya.
Per Giorgio Mineko è molto sincera, ma non è per nulla modesta.
Abbiamo parlato della famiglia, che è un tema preponderante nel racconto. La famiglia è conflitto (rapporto conflittuale con la sorella e col nipote che cerca di violentarla); è odio e amore. Si abbandona la famiglia di origine per essere parte di una nuova famiglia composta da geishe: riteniamo sia una pratica molto crudele quella di far decidere ad una bambina di 5 anni abbandonare per sempre la propria famiglia, rinnegando i propri genitori per diventare geisha (infatti Mineko sfogava la sua frustrazione per questa situazione vomitando e chiudendosi nell’armadio). Ricorre molto il tema della famiglia allargata, con nonne, zie, nipoti, acquisiti e non. Al tema della famiglia è collegato quello dell’onore. Mineko impara da suo padre ad avere autostima, onore e dignità di sé.
Un altro tema ricorrente è quello della tortura fisica: una geisha deve portare vestiti molto pesanti; deve acconciarsi i capelli con acconciature che a lungo andare la rendono calva; per grattarsi la testa deve usare pettini o spilloni; deve camminare con infradito alte e fasciata in vestiti stretti. E’ tutto un sacrificio.
Questo è, a parere di tutti, un libro che ti dà uno scorcio su una realtà molto lontana e diversa dalla nostra e nel contempo molto interessante. E’ un libro equilibrato, leggero (nel senso di fluente e scorrevole), senza fronzoli e lineare. Lo stile narrativo è semplice e stringato con periodi brevi, tipici del modo di esprimersi e della cultura giapponese. A tal proposito l’autrice fa notare come il principe Carlo e la regina Elisabetta II, emblemi dell’occidente, siano molto maleducati e irrispettosi: il principe scarabocchia col suo autografo il ventaglio di Mineko senza che nessuno l’abbia autorizzato a farlo (e non comprendendo quale sia il valore di un ventaglio per una geisha) ; e la regina non mangia nulla di quello che con cura e fatica le hanno servito a tavola (pag. 220). La cultura occidentale è per Mineko indecifrabile (ma vale comunque il viceversa…); la realtà occidentale appare molto lontana e diversa da quella giapponese.
Mineko è stata a contatto con moltissime personalità di alto livello internazionale. Tra queste menziona anche un noto docente di fisica, che però conosce solo Giorgio: Yukawa.
Voti e commenti :
Valentina: 9
Elena: 7 e mezzo; libro semplice, argomento leggero ma non scontato
Anna: 8 e mezzo; libro profondo e reale (come Giulia)
Francesca: 8
Giulia: 9; libro semplice e reale che ti apre gli occhi su un’altra cultura
Giorgio: 7/8; chiaro, ti permette di apprendere qualcosa di diverso dalla tua cultura
Laura: 7/8, scorrevole (come Giorgio)
Francesca distribuisce i libri del prossimo incontro che verterà su “Il profumo del Sud”, di Linda Bertasi.
Di Mineko Iwasaki, con Rande Brown
Incontro del 28 Gennaio 2017, a casa di Anna Vaccari, che ha proposto la lettura e modera la discussione.
Presenti: Francesca, Anna, Elena, Valentina, Giulia, Laura e Giorgio
Presente in qualità di uditrice: Cecilia
Anna si è resa conto di aver sempre proposto libri che raccontano di donne… Ha comprato anche il più famoso “Memorie di una geisha”, di Arthur Golden, tuttavia non è riuscita a terminarlo (“mi faceva venire rabbia”… cit.) perché è scritto da un americano che disonora e stravolge la figura della geisha. Golden la dipinge come una prostituta (oiran). Sicuramente la confusione tra geisha e oiran è dovuta al termine “mizuage”, usato sia per la cerimonia per la promozione di una maiko, sia per la deflorazione cerimoniale di una prostituta.
Il “nostro” libro, invece, seppur meno conosciuto, è molto più realista e descrive la vera realtà della geisha giapponese. Si tratta di una autobiografia scritta in prima persona dalla geisha più conosciuta e nota del Giappone. Mineko scrive la sua vita fino ai 30731 anni. Si concentra soprattutto sulla sua prima infanzia e adolescenza ( = fasi di formazione): sono anni pieni di studio e di lavoro in cui la protagonista si è privata di tutto, anche del riposo. Gli ultimi anni, invece, sono liquidati in poche pagine.
Mineko descrive la sua vita fuori e dentro la “okiya”, che è la “casa delle geishe”. Francesca fa notare come questa parola abbia una radice comune alla parola greca “casa” (oikia).
La figura di Mineko è quella di una ragazza molto inquadrata e devota all’arte, in particolar modo alla danza che ama profondamente. E’ indipendente economicamente e molto ricca come quasi tutte le sue compagne. E’ stata adottata in tenera età. L’adozione è una garanzia di continuità per la okiya. Mineko si è talmente focalizzata sulla sua attività che ha abbandonato tutto il resto: non aveva neanche idea di come funzionassero le più elementari faccende di casa. Quando va a vivere da sola, non sa neppure come si accende il gas per farsi il tè o non sa che il riso si compra e si mette nell’apposito contenitore.
Abbiamo discusso di quello che può sembrare un “uso strumentale” della stessa vita privata di Mineko per migliorarsi ulteriormente nel campo della danza. Mineko vuole innamorarsi, perché crede che da innamorata può danzare meglio e quindi perfezionare ancora di più il suo talento (Francesca). Per Laura Mineko vuole primeggiare non per egoismo, ma per essere accettata. Le compagne invidiose le facevano dispetti, quindi lei vuole migliorarsi ulteriormente. La sua originaria passione (la danza) diventa quasi una forma di ossessione; lei tende ad una perfezione estrema, di per sé irraggiungibile, e ha una attenzione esagerata per i dettagli (come aprire una porta, come aprire un ventaglio, come preparare un tè secondo un perfetto cerimoniale, p. 145 – cerimonia del tè).
Ci siamo chiesti perché, improvvisamente, Mineko lasci il lavoro da geisha. Sostanzialmente perché lei non condivideva la rigidità del sistema e le regole in cui le geishe erano confinate: potevano danzare solo in determinate occasioni; per insegnare dovevano aver seguito un determinato percorso… v. p. 288 in cui si descrive l’estrema rigidità del sistema.
Per Mineko la vita è bianca o nera. Non ci sono sfumature. Quindi o lavora fino a privarsi del sonno, oppure chiude l’okiya e vende tutto. Non c’è via di mezzo. E nell’immaginario collettivo sono un po’ così anche gli stessi giapponesi.
Quando si ritira dalla vita di geisha, Mineko è disorientata. Il suo alto grado di formazione non viene riconosciuto al di fuori del rigido sistema delle geishe. Lei era brava ad esibirsi, ma non vuoleva gestire una okiya.
Per Giorgio Mineko è molto sincera, ma non è per nulla modesta.
Abbiamo parlato della famiglia, che è un tema preponderante nel racconto. La famiglia è conflitto (rapporto conflittuale con la sorella e col nipote che cerca di violentarla); è odio e amore. Si abbandona la famiglia di origine per essere parte di una nuova famiglia composta da geishe: riteniamo sia una pratica molto crudele quella di far decidere ad una bambina di 5 anni abbandonare per sempre la propria famiglia, rinnegando i propri genitori per diventare geisha (infatti Mineko sfogava la sua frustrazione per questa situazione vomitando e chiudendosi nell’armadio). Ricorre molto il tema della famiglia allargata, con nonne, zie, nipoti, acquisiti e non. Al tema della famiglia è collegato quello dell’onore. Mineko impara da suo padre ad avere autostima, onore e dignità di sé.
Un altro tema ricorrente è quello della tortura fisica: una geisha deve portare vestiti molto pesanti; deve acconciarsi i capelli con acconciature che a lungo andare la rendono calva; per grattarsi la testa deve usare pettini o spilloni; deve camminare con infradito alte e fasciata in vestiti stretti. E’ tutto un sacrificio.
Questo è, a parere di tutti, un libro che ti dà uno scorcio su una realtà molto lontana e diversa dalla nostra e nel contempo molto interessante. E’ un libro equilibrato, leggero (nel senso di fluente e scorrevole), senza fronzoli e lineare. Lo stile narrativo è semplice e stringato con periodi brevi, tipici del modo di esprimersi e della cultura giapponese. A tal proposito l’autrice fa notare come il principe Carlo e la regina Elisabetta II, emblemi dell’occidente, siano molto maleducati e irrispettosi: il principe scarabocchia col suo autografo il ventaglio di Mineko senza che nessuno l’abbia autorizzato a farlo (e non comprendendo quale sia il valore di un ventaglio per una geisha) ; e la regina non mangia nulla di quello che con cura e fatica le hanno servito a tavola (pag. 220). La cultura occidentale è per Mineko indecifrabile (ma vale comunque il viceversa…); la realtà occidentale appare molto lontana e diversa da quella giapponese.
Mineko è stata a contatto con moltissime personalità di alto livello internazionale. Tra queste menziona anche un noto docente di fisica, che però conosce solo Giorgio: Yukawa.
Voti e commenti :
Valentina: 9
Elena: 7 e mezzo; libro semplice, argomento leggero ma non scontato
Anna: 8 e mezzo; libro profondo e reale (come Giulia)
Francesca: 8
Giulia: 9; libro semplice e reale che ti apre gli occhi su un’altra cultura
Giorgio: 7/8; chiaro, ti permette di apprendere qualcosa di diverso dalla tua cultura
Laura: 7/8, scorrevole (come Giorgio)
Francesca distribuisce i libri del prossimo incontro che verterà su “Il profumo del Sud”, di Linda Bertasi.
Re: VERBALI degli Incontri
Verbale redatto da Cecilia Buraschi
Cesta, 10 giugno 2017
Trentaduesimo incontro
“Il Profumo del Sud” di Linda Bertasi
Libro proposto da Francesca Buraschi
Partecipanti al circolo presenti: Linda Bertasi (autrice), Cecilia Buraschi, Francesca Buraschi, Silvia Callegari, Laura Facchini, Elena Lavezzi, Giulia Pasquali, Laura Rizzi, Giorgio Sacchi, Anna Vaccari, Valentina Corazzari.
La fondatrice del Circolo, Francesca, organizza un originale e stimolante “incontro con l’autore” in onore del decennale della fondazione di Bibliotè.
L’autrice si presenta e racconta la sua esperienza di scrittrice. Parla dei suoi studi, delle sue passioni, di come ha mosso i primi passi nel mondo dell’editoria e illustra brevemente alcuni dei suoi romanzi. Poi descrive un’esperienza che intraprende, simile a Bibliotè, dal nome “Libro in viaggio”: fa parte di un gruppo di 12 persone, ognuna delle quali legge un libro al mese e condivide con le altre le proprie impressioni a riguardo.
A questo punto inizia l’incontro vero e proprio, focalizzato sul libro “Il Profumo del Sud”.
Tema del profumo
Ad ogni personaggio è associato un profumo specifico. Alla domanda “perchè hai scelto questi profumi?”, Linda risponde premettendo che per lei la scrittura è magia: sono i personaggi che, tramite una sorta di possessione, la inducono a scrivere. Poi descrive al gruppo il significato di alcune sue scelte:
Linda adora l’Ottocento, in particolare la guerra di secessione è sempre stata una sua passione. Linda ama legare il tema dell’amore a quello della guerra ed è affascinata dal potere che ha la storia nel modificare le vite dei personaggi. Ci racconta che la ricerca storica segue la stesura del libro, mentre la formulazione del titolo arriva alla conclusione di esso. Ci confida che, per la descrizione della scena iniziale ambientata al porto di Genova, ha impiegato un mese di studio tra testi sulla lanterna del porto, Diari di Bordo per ricavare informazioni sulla tipologia di imbarcazioni, documentazioni per risalire ai cognomi in voga all’epoca. Le fonti principali del libro sono gli archivi storici. E, come preannunciato, magia e paranormale per Linda sono tematiche cruciali: Linda scrive solo se sta vivendo la scena in quel preciso istante, non c’è niente di pianificato, l’ispirazione è il motore di tutto. Il segreto è essere un tutt’uno con i personaggi, come ad esempio nella scena del parto di Isabella, in cui Linda si è lasciata trasportare dal personaggio, rivivendo le emozioni provate durante la reale nascita della propria figlia. Linda scrive di getto, al primo colpo di ispirazione, e dal punto di vista tecnico abbozza in primis il dialogo e poi ricama la scena di particolari descrittivi. Infine ci racconta che tra la stesura di un libro e l’altro fa scorrere qualche tempo, come a prendere una sosta dalle sensazioni che l’hanno pervasa durante la scrittura.
Tema dell’amore
E’ stata mossa all’autrice una domanda molto sentita dal gruppo: “la vera storia d’amore è quella tra Isabella e Justin o quella tra Isabella e Jones?” Linda confida che alla notte sognava Justin! Ma ha voluto dar vita a due tipi di amore: quello passionale e travolgente di Justin, pieno di sé, ma che alla fine si pente della sue scelte azzardate e quello più razionale e tranquillo di Jones. Si delinea, quindi, in questo romanzo il topos del triangolo d’amore: la donna (Isabella), la passione (Justin) e la sicurezza (Jones). Il gruppo commenta che Justin inizialmente si è appassionato a Isabella con estrema rapidità e alla stesso tempo aveva paura di questa donna che l’avrebbe reso “schiavo” dell’innamoramento. L’istintività dell’uomo è provata anche dal regalo-donazione della sua tenuta.
Schiavitù
Interessanti sono le due letture che ci vengono proposte sul rapporto padrone-schiavo. Quello gerarchico e violento degli Spencer e quello amorevole e “paritario” di Isabella. Due comportamenti diversi si hanno anche dal punto di vista degli schivi: l’eterno fedele Sam e il cambio di atteggiamento di Emily dopo lo shock relativo alla morte del fratello.
Suspance
Tecnica largamente utilizzata nel romanzo. Linda vuole trasmettere al lettore la sensazione di stare osservando un film: c’è una ricerca continua nel creare situazioni tali per cui si è spinti a leggere “ansiosamente” la pagina o il capitolo successivo.
Infine Francesca ha annunciato il titolo del libro oggetto del prossimo incontro, proposto da Giorgio: “Alle montagne della follia” di Howard P. Lovecraft.
Cesta, 10 giugno 2017
Trentaduesimo incontro
“Il Profumo del Sud” di Linda Bertasi
Libro proposto da Francesca Buraschi
Partecipanti al circolo presenti: Linda Bertasi (autrice), Cecilia Buraschi, Francesca Buraschi, Silvia Callegari, Laura Facchini, Elena Lavezzi, Giulia Pasquali, Laura Rizzi, Giorgio Sacchi, Anna Vaccari, Valentina Corazzari.
La fondatrice del Circolo, Francesca, organizza un originale e stimolante “incontro con l’autore” in onore del decennale della fondazione di Bibliotè.
L’autrice si presenta e racconta la sua esperienza di scrittrice. Parla dei suoi studi, delle sue passioni, di come ha mosso i primi passi nel mondo dell’editoria e illustra brevemente alcuni dei suoi romanzi. Poi descrive un’esperienza che intraprende, simile a Bibliotè, dal nome “Libro in viaggio”: fa parte di un gruppo di 12 persone, ognuna delle quali legge un libro al mese e condivide con le altre le proprie impressioni a riguardo.
A questo punto inizia l’incontro vero e proprio, focalizzato sul libro “Il Profumo del Sud”.
Tema del profumo
Ad ogni personaggio è associato un profumo specifico. Alla domanda “perchè hai scelto questi profumi?”, Linda risponde premettendo che per lei la scrittura è magia: sono i personaggi che, tramite una sorta di possessione, la inducono a scrivere. Poi descrive al gruppo il significato di alcune sue scelte:
- a Jones è associato il Neroli, tipico profumo maschile ma al contempo raffinato; è un profumo particolare, come il personaggio stesso
- Justin invece profuma di muschio, perché più selvaggio
- Isabella è rappresentata dalla delicatezza e dolcezza delle fragole e del gelsomino
- Margherita proviene da Meta, città scelta per l’intenso profumo degli agrumeti
Linda adora l’Ottocento, in particolare la guerra di secessione è sempre stata una sua passione. Linda ama legare il tema dell’amore a quello della guerra ed è affascinata dal potere che ha la storia nel modificare le vite dei personaggi. Ci racconta che la ricerca storica segue la stesura del libro, mentre la formulazione del titolo arriva alla conclusione di esso. Ci confida che, per la descrizione della scena iniziale ambientata al porto di Genova, ha impiegato un mese di studio tra testi sulla lanterna del porto, Diari di Bordo per ricavare informazioni sulla tipologia di imbarcazioni, documentazioni per risalire ai cognomi in voga all’epoca. Le fonti principali del libro sono gli archivi storici. E, come preannunciato, magia e paranormale per Linda sono tematiche cruciali: Linda scrive solo se sta vivendo la scena in quel preciso istante, non c’è niente di pianificato, l’ispirazione è il motore di tutto. Il segreto è essere un tutt’uno con i personaggi, come ad esempio nella scena del parto di Isabella, in cui Linda si è lasciata trasportare dal personaggio, rivivendo le emozioni provate durante la reale nascita della propria figlia. Linda scrive di getto, al primo colpo di ispirazione, e dal punto di vista tecnico abbozza in primis il dialogo e poi ricama la scena di particolari descrittivi. Infine ci racconta che tra la stesura di un libro e l’altro fa scorrere qualche tempo, come a prendere una sosta dalle sensazioni che l’hanno pervasa durante la scrittura.
Tema dell’amore
E’ stata mossa all’autrice una domanda molto sentita dal gruppo: “la vera storia d’amore è quella tra Isabella e Justin o quella tra Isabella e Jones?” Linda confida che alla notte sognava Justin! Ma ha voluto dar vita a due tipi di amore: quello passionale e travolgente di Justin, pieno di sé, ma che alla fine si pente della sue scelte azzardate e quello più razionale e tranquillo di Jones. Si delinea, quindi, in questo romanzo il topos del triangolo d’amore: la donna (Isabella), la passione (Justin) e la sicurezza (Jones). Il gruppo commenta che Justin inizialmente si è appassionato a Isabella con estrema rapidità e alla stesso tempo aveva paura di questa donna che l’avrebbe reso “schiavo” dell’innamoramento. L’istintività dell’uomo è provata anche dal regalo-donazione della sua tenuta.
Schiavitù
Interessanti sono le due letture che ci vengono proposte sul rapporto padrone-schiavo. Quello gerarchico e violento degli Spencer e quello amorevole e “paritario” di Isabella. Due comportamenti diversi si hanno anche dal punto di vista degli schivi: l’eterno fedele Sam e il cambio di atteggiamento di Emily dopo lo shock relativo alla morte del fratello.
Suspance
Tecnica largamente utilizzata nel romanzo. Linda vuole trasmettere al lettore la sensazione di stare osservando un film: c’è una ricerca continua nel creare situazioni tali per cui si è spinti a leggere “ansiosamente” la pagina o il capitolo successivo.
Infine Francesca ha annunciato il titolo del libro oggetto del prossimo incontro, proposto da Giorgio: “Alle montagne della follia” di Howard P. Lovecraft.
Re: VERBALI degli Incontri
Verbale redatto da Elena Lavezzi
Trentatreesimo incontro
"Le montagne della follia" di Howard Phillips Lovecraft
Incontro del 30 Settembre 2017, a casa di Giorgio, che ha proposto la lettura e modera la discussione.
Presenti: Francesca, Elena, Valentina, Giulia, Cecilia, Laura F, Laura R e Giorgio
Presente in qualità di uditrice: Betta
Giorgio inizia la discussione raccontando la vita dell’autore. Nato nel 1890 figlio di genitori iperprotettivi (madre) e con crisi isteriche (padre) il padre ricoverato dal 1893 al 1898 per psicosi e morto di sifilide.
Fin da piccolo il nonno gli leggeva letteratura gotica (Verne, Poe) e libri di astronomia e chimica e lui se ne innamora.
Nel 1900 comincia ad avere anch’egli i primi esaurimenti nervosi e da giovanissimo (12-14 anni) comincia a scrivere poesie e soprattutto racconti, inoltre pubblica uno scritto su un giornale di astronomia a soli 16 anni.
Non si ritiene un grande scrittore, e dal 1912 la sua attività principale è quella di revisore di manoscritti e ghost writer, questo gli garantisce una fitta rete di contatti.
Nel 1921 muore la madre, anche lei precedentemente ricoverata per isteria e depressione, conosce poi quella che diventerà la sua futura moglie: Sonia Greene (da cui divorzierà nel 1928) e diventa presidente di UAFA (United Amateur Press Association) e rimarrà quasi sconosciuto come scrittore fino a dopo la morte.
Nel 1927 comincia a scrivere il
Ciclo di Cthulhu e i primi romanzi.
Nel 1931 scrive “Le Montagne della Follia”, che però gli viene rifiutato perché troppo lungo, e nel 1935, frustrato dalla poca fiducia nelle proprie capacità e scoraggiato dai rifiuti, smette di scrivere.
Nel 1937 muore per tumore intestinale.
Le sue opere si dividono in tre categorie (cronologiche oltre che tematiche)
1. Storie Macabre
2. Storie Oniriche
3. Ciclo di Cthulhu (di cui fa parte Le Montagne della Follia) di cui i primi racconti (fino al 1930 circa) sono più fantasy e i secondi sono più fantascientifici.
E qui compare il Necronomicon (libro delle immagini della morte/dei nomi della morte) fatto di pelle umana, libro inventato sulle divinità che sembra vero e molti autori successivi lo citano come esistente. L’ispirazione è data principalmente dai suoi stessi incubi e dal progresso scientifico.
Il titolo proviene da una novella di Lord Dunsany “The Hashish Man”.
Dal punto di vista lessicale “Le Montagne della Follia” (Giorgio l’ha letto in inglese) il libro è molto “british”. Usa termini, ed aggettivi della lingua inglese britannica invece di quella americana.
Francesca dice che Stephen King si ispira un sacco a Lovecraft, è un suo grande estimatore.
Il libro è ispirato da Antartide, l’ultima delle terre inesplorate, e da una vera spedizione (citata nel romanzo) e anche da “The narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket” di Poe, citato anche questo nel testo (tekeli-li).
Dal 2013 Guillermo del Toro prova a farne un film ma non è mai stato accettato.
Temi:
Pessimismo cosmico: sia dal punto di vista delle vicende, sia del genere umano stesso (nonostante sia un grande estimatore del progresso scientifico)
Conoscenza proibita: ovvero leggere cose che non si devono leggere, sapere cose che non si dovrebbero sapere, andare in luoghi in cui non si dovrebbe andare.
Inizia una accesa discussione sulla suspense che l’autore crea, alcuni la trovano bellissima, altri molto irritante.
Cecilia ha fatto fatica dalla metà in poi, si aspettava che l’autore descrivesse in modo chiaro i mostri e cosa fosse successo, invece Lovecraft con continue pause e digressioni ha ottenuto l’effetto di stancare il lettore. Questo aspetto è condiviso anche da Giulia e da Elena.
La parte clou sul finire del romanzo risulta essere di difficile comprensione per tutti, in molti non hanno compreso bene la dinamica della scena finale, scritta come un climax, perché descritta in modo metaforico (il mostro è come un treno sotterraneo). Francesca legge il pezzo in questione.
Francesca trova questo libro moderno e iperrealista, come se fosse stato scritto negli anni ’70. Dice che nella realtà è successa davvero una cosa del genere a degli escursionisti russi uccisi da qualcosa di radioattivo nel 1959 (legge articolo di Vanilla Magazine).
Giorgio invece lo ritiene più “vecchio” come se fosse stato scritto da un contemporaneo di Edgar Allan Poe. Anche lui ha fatto fatica a leggere dalla seconda metà del libro. Apprezza molto lo stile di scrittura e il fatto che sia intriso di cultura, anche se in alcuni punti ritiene sia davvero pesante e confuso. Il registro cambia con il proseguire del racconto, all’inizio tutto molto scientifico.
Laura F. ritiene che ci siano incongruenze temporali inspiegabili. I protagonisti capiscono tutto in poche ore e non parlano delle proprie scoperte. Perché?
Nelle caverne c’era caldo, come hanno fatto gli antichi a ghiacciarsi?
Laura è colpita dal fatto che nel creare un’altra civiltà l’autore si premura di dire che gli esseri utilizzavano suoni o parole per esprimersi, avendo grande immaginazione. Cioè ti apre ogni possibilità sul linguaggio di questi esseri. Trova però il libro molto lento.
Francesca invece ritiene il libro molto simile a quelli di Stephen King nel fatto di tenere lì il lettore.
Betta pensava che il libro si sviluppasse in modo che nel finale il protagonista fosse in manicomio e che si fosse fato di oppio o di assenzio.
Elena si aspettava un colpo di scena finale che invece non c’è mai stato.
Giorgio ritiene che questa sia una questione di epoche: adesso siamo abituati ad una scrittura più veloce e più densa di avvenimenti, e che questo stile di scrittura sia in linea con il tema della conoscenza proibita (quindi il libro non ti spiega).
Giulia apprezza il fatto che ogni termine fosse studiato, messo nel posto giusto, apprezza anche anche la costruzione delle frasi.
Dice però che non spiegando bene cosa effettivamente sono i mostri, cosa c’è di terribile effettivamente nella spedizione, il protagonista non ottiene l’effetto che vorrebbe, ovvero frenare le spedizioni future; perché fa solo aumentare la curiosità.
Voti:
Cecilia: 6,5 il libro è stato una sofferenza da metà in poi ma è scritto bene.
Vale: 8
Giorgio: 6,5 il libro gli è piaciuto, è scritto bene ma ritiene che Lovecraft abbia fatto un climax senza apice. Non ha apprezzato la parte lunghissima dedicata agli affreschi dell’antica civiltà che ha rovinato la prima parte del libro scritta in modo così puntiglioso e scrupoloso.
Giulia: 7,5, il libro è piaciuto, ha apprezzato particolarmente la parte lessicale, la struttura sintattica, le ha dato soddisfazione leggerla.
Frency: 8,5 ritiene che sia un libro moderno (anni ’70) e molto verosimile, le è piaciuta la suspense.
Betta: 6, il libro è noioso dal momento in cui si ritrovano i corpi straziati.
Laura F: il libro è corto e scritto bene ma non le piace la fantascienza aliena.
Elena: 7 bello lo stile della prima parte ma troppa suspense e mancanza di colpo di scena finale.
Laura R: 7,5 contenta di averlo letto perché altrimenti non l’avrebbe mai scelto da sola, anche se la storia non l’ha soddisfatta del tutto lo ritiene molto moderno.
Cecilia legge il titolo del prossimo libro: Le Notti Bianche di Fedor Dostoevskij.
Trentatreesimo incontro
"Le montagne della follia" di Howard Phillips Lovecraft
Incontro del 30 Settembre 2017, a casa di Giorgio, che ha proposto la lettura e modera la discussione.
Presenti: Francesca, Elena, Valentina, Giulia, Cecilia, Laura F, Laura R e Giorgio
Presente in qualità di uditrice: Betta
Giorgio inizia la discussione raccontando la vita dell’autore. Nato nel 1890 figlio di genitori iperprotettivi (madre) e con crisi isteriche (padre) il padre ricoverato dal 1893 al 1898 per psicosi e morto di sifilide.
Fin da piccolo il nonno gli leggeva letteratura gotica (Verne, Poe) e libri di astronomia e chimica e lui se ne innamora.
Nel 1900 comincia ad avere anch’egli i primi esaurimenti nervosi e da giovanissimo (12-14 anni) comincia a scrivere poesie e soprattutto racconti, inoltre pubblica uno scritto su un giornale di astronomia a soli 16 anni.
Non si ritiene un grande scrittore, e dal 1912 la sua attività principale è quella di revisore di manoscritti e ghost writer, questo gli garantisce una fitta rete di contatti.
Nel 1921 muore la madre, anche lei precedentemente ricoverata per isteria e depressione, conosce poi quella che diventerà la sua futura moglie: Sonia Greene (da cui divorzierà nel 1928) e diventa presidente di UAFA (United Amateur Press Association) e rimarrà quasi sconosciuto come scrittore fino a dopo la morte.
Nel 1927 comincia a scrivere il
Ciclo di Cthulhu e i primi romanzi.
Nel 1931 scrive “Le Montagne della Follia”, che però gli viene rifiutato perché troppo lungo, e nel 1935, frustrato dalla poca fiducia nelle proprie capacità e scoraggiato dai rifiuti, smette di scrivere.
Nel 1937 muore per tumore intestinale.
Le sue opere si dividono in tre categorie (cronologiche oltre che tematiche)
1. Storie Macabre
2. Storie Oniriche
3. Ciclo di Cthulhu (di cui fa parte Le Montagne della Follia) di cui i primi racconti (fino al 1930 circa) sono più fantasy e i secondi sono più fantascientifici.
E qui compare il Necronomicon (libro delle immagini della morte/dei nomi della morte) fatto di pelle umana, libro inventato sulle divinità che sembra vero e molti autori successivi lo citano come esistente. L’ispirazione è data principalmente dai suoi stessi incubi e dal progresso scientifico.
Il titolo proviene da una novella di Lord Dunsany “The Hashish Man”.
Dal punto di vista lessicale “Le Montagne della Follia” (Giorgio l’ha letto in inglese) il libro è molto “british”. Usa termini, ed aggettivi della lingua inglese britannica invece di quella americana.
Francesca dice che Stephen King si ispira un sacco a Lovecraft, è un suo grande estimatore.
Il libro è ispirato da Antartide, l’ultima delle terre inesplorate, e da una vera spedizione (citata nel romanzo) e anche da “The narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket” di Poe, citato anche questo nel testo (tekeli-li).
Dal 2013 Guillermo del Toro prova a farne un film ma non è mai stato accettato.
Temi:
Pessimismo cosmico: sia dal punto di vista delle vicende, sia del genere umano stesso (nonostante sia un grande estimatore del progresso scientifico)
Conoscenza proibita: ovvero leggere cose che non si devono leggere, sapere cose che non si dovrebbero sapere, andare in luoghi in cui non si dovrebbe andare.
Inizia una accesa discussione sulla suspense che l’autore crea, alcuni la trovano bellissima, altri molto irritante.
Cecilia ha fatto fatica dalla metà in poi, si aspettava che l’autore descrivesse in modo chiaro i mostri e cosa fosse successo, invece Lovecraft con continue pause e digressioni ha ottenuto l’effetto di stancare il lettore. Questo aspetto è condiviso anche da Giulia e da Elena.
La parte clou sul finire del romanzo risulta essere di difficile comprensione per tutti, in molti non hanno compreso bene la dinamica della scena finale, scritta come un climax, perché descritta in modo metaforico (il mostro è come un treno sotterraneo). Francesca legge il pezzo in questione.
Francesca trova questo libro moderno e iperrealista, come se fosse stato scritto negli anni ’70. Dice che nella realtà è successa davvero una cosa del genere a degli escursionisti russi uccisi da qualcosa di radioattivo nel 1959 (legge articolo di Vanilla Magazine).
Giorgio invece lo ritiene più “vecchio” come se fosse stato scritto da un contemporaneo di Edgar Allan Poe. Anche lui ha fatto fatica a leggere dalla seconda metà del libro. Apprezza molto lo stile di scrittura e il fatto che sia intriso di cultura, anche se in alcuni punti ritiene sia davvero pesante e confuso. Il registro cambia con il proseguire del racconto, all’inizio tutto molto scientifico.
Laura F. ritiene che ci siano incongruenze temporali inspiegabili. I protagonisti capiscono tutto in poche ore e non parlano delle proprie scoperte. Perché?
Nelle caverne c’era caldo, come hanno fatto gli antichi a ghiacciarsi?
Laura è colpita dal fatto che nel creare un’altra civiltà l’autore si premura di dire che gli esseri utilizzavano suoni o parole per esprimersi, avendo grande immaginazione. Cioè ti apre ogni possibilità sul linguaggio di questi esseri. Trova però il libro molto lento.
Francesca invece ritiene il libro molto simile a quelli di Stephen King nel fatto di tenere lì il lettore.
Betta pensava che il libro si sviluppasse in modo che nel finale il protagonista fosse in manicomio e che si fosse fato di oppio o di assenzio.
Elena si aspettava un colpo di scena finale che invece non c’è mai stato.
Giorgio ritiene che questa sia una questione di epoche: adesso siamo abituati ad una scrittura più veloce e più densa di avvenimenti, e che questo stile di scrittura sia in linea con il tema della conoscenza proibita (quindi il libro non ti spiega).
Giulia apprezza il fatto che ogni termine fosse studiato, messo nel posto giusto, apprezza anche anche la costruzione delle frasi.
Dice però che non spiegando bene cosa effettivamente sono i mostri, cosa c’è di terribile effettivamente nella spedizione, il protagonista non ottiene l’effetto che vorrebbe, ovvero frenare le spedizioni future; perché fa solo aumentare la curiosità.
Voti:
Cecilia: 6,5 il libro è stato una sofferenza da metà in poi ma è scritto bene.
Vale: 8
Giorgio: 6,5 il libro gli è piaciuto, è scritto bene ma ritiene che Lovecraft abbia fatto un climax senza apice. Non ha apprezzato la parte lunghissima dedicata agli affreschi dell’antica civiltà che ha rovinato la prima parte del libro scritta in modo così puntiglioso e scrupoloso.
Giulia: 7,5, il libro è piaciuto, ha apprezzato particolarmente la parte lessicale, la struttura sintattica, le ha dato soddisfazione leggerla.
Frency: 8,5 ritiene che sia un libro moderno (anni ’70) e molto verosimile, le è piaciuta la suspense.
Betta: 6, il libro è noioso dal momento in cui si ritrovano i corpi straziati.
Laura F: il libro è corto e scritto bene ma non le piace la fantascienza aliena.
Elena: 7 bello lo stile della prima parte ma troppa suspense e mancanza di colpo di scena finale.
Laura R: 7,5 contenta di averlo letto perché altrimenti non l’avrebbe mai scelto da sola, anche se la storia non l’ha soddisfatta del tutto lo ritiene molto moderno.
Cecilia legge il titolo del prossimo libro: Le Notti Bianche di Fedor Dostoevskij.
Re: VERBALI degli Incontri
Verbale redatto da Giulia Pasquali
Trentaquattresimo incontro
"Le notti bianche" di Fedor Dostoevskij
Incontro del 28 Gennaio 2018, a casa di Cecilia che ha proposto la lettura e modera la discussione
Presenti: Anna, Valentina, Silvia, Laura, Giulia e Cecilia
Nessun uditore
L’incontro, con Cecilia come chairwoman, si svolge in quel di Cesta in modo inusuale ed innovativo sia per struttura che per organizzazione dei contenuti.
Cecilia ci spiega che darà all’uditorio alcuni input, sui quali si svolgerà successivamente una discussione non solo orale ma anche “visiva”.
INPUT 1: Biografia dell’autore
Fedor Dostoevskij nasce a Mosca nel 1821 da una famiglia nobile, benestante, colta e numerosa (avrà sei fratelli). A causa di una serie di traumi, diventa, adolescente, epilettico. Il padre è medico ed è un tipo stravagante e dispotico, mentre la madre è commerciante e lo educa all’amore, alla musica alla letteratura. Quando la madre muore di tisi, viene iscritto, controvoglia, alla scuola del genio militare di San Pietroburgo. Appena terminati gli studi militari torna ad interessarsi di letteratura e comincia a vivere di traduzioni dal francese. Lotta contro la povertà e la salute cagionevole, si ritira ed inizia a scrivere, trasmettendo la sofferenza dell’uomo degradato e incompreso.
A causa della frequentazione di ambienti rivoluzionari viene imprigionato e condannato a morte, ma al momento dell’esecuzione, quando è già sul patibolo, la pena viene trasformata in 4 anni di lavori forzati e viene spedito in Siberia.
Finito di scontare la pena, nel 1857 si sposa con la prima moglie Marija, già vedova con un figlio e che muore dopo qualche anno; Fedor allora viaggia in Europa e gioca d’azzardo, cercando di risolvere le proprie difficoltà economiche, che invece peggiorano ulteriormente.
Nel 1967 si sposa una seconda volta con Anna, hanno una figlia che muore a 3 mesi, poi hanno altri due figli; il quarto figlio muore di epilessia, la stessa malattia del padre.
Lettura e scrittura sono sempre state presenti nella sua vita, e a partire dagli anni 70 dell’800 iniziano finalmente a dare anche un sostentamento economico importante, oltre ad ottenere molti apprezzamenti (ma anche critiche) dai letterati dell’epoca. I riconoscimenti continuano ad arrivare, permettendogli finalmente di vivere una vita agiata a San Pietroburgo.
Muore di enfisema polmonare a San Pietroburgo nel 1881, il 28 Gennaio (la data del nostro incontro!).
INPUT 2: Film “Le notti bianche” di Luchino Visconti, 1957
Cecilia ci fa vedere alcuni spezzoni, che ci fanno capire che il film è stato ”adattato” al pubblico italiano, tradendo il libro sia dal punto di vista dell’ambientazione, che della trama.
E’ ambientato in Italia, durante delle sere d’inverno (nevica!); è molto più corale, molte scene sono contornate da tante persone (es. scena del ballo, passeggiate per strada).
La lettera che Nasten’ka (nel film: Natalia) vuol far recapitare all’amato nel film Natalia detta il testo mentre nel libro lei l’ha già scritta.
INPUT 3: opinioni scaricate dal web di 45 lettori de “Le notti bianche”
Cecilia ci mette a disposizione delle opinioni di lettori sconosciuti sul libro in questione; ognuno di noi deve sceglierne qualcuna tra quelle che lo colpiscono di più ed utilizzarle come base di confronto e spunto per la successiva discussione finale.
SVOLGIMENTO DELLA DISCUSSIONE
La discussione si realizza grazie ad un cartellone, su cui ognuno di noi ha attaccato dei post-it in cui ha segnato i temi che voleva discutere.
Tutti i post-it sono poi stati raggruppati per somiglianza di argomento, trovando quindi 4 macro-argomenti, elencati di seguito.
GIORNO/NOTTE – SPAZIO/TEMPO – ILLUSIONE/REALTA’
È il tema più importante del libro, su cui è incentrata l’intera storia. Assume diverse forme, sia materiali (giorno vs notte), sia immateriali (spazio vs tempo, illusione vs realtà).
La storia si svolge durante quattro notti, ma si conclude brutalmente un mattino.
Il concetto dello spazio/tempo sembra non esserci, ma è importante proprio per questo; non ci sono descrizioni dettagliate né del contesto fisico in cui i protagonisti si trovano, né ci sono dettagli di orario (a parte l’orario dell’appuntamento con l’amato).
La dualità dell’illusione vs la realtà è altamente significativa e mai esplicitamente “rivelata”; fino ad un certo punto, non è chiaro a nessuno dei protagonisti, né al lettore, se stanno credendo in quello che vivono o se vivono credendo di essere felici. Questa dualità si trasferisce inevitabilmente alla vita ai giorni nostri: siamo connessi con il mondo attraverso il web (Facebook, Instagram), ma siamo diventati fondamentalmente delle persone sole, con una “cyber-vita” che fa apparentemente credere a tutti, noi inclusi, che siamo felici.
Lo stesso titolo rimanda a due concetti: quello delle notti bianche di Giugno nel nord della Russia, durante le quali c’è sempre luce e quello delle notti in bianco, passate senza dormire.
L’intero racconto, poi, si sviluppa sempre su due registri contrapposti: quello lento, che caratterizza il sogno, l’illusione, l’interiorità del protagonista, e quello veloce, tipico di Nasten’ka, che è curiosa, descrive la sua vita e la sua “realtà” con dovizia di particolari, raccontando dei fatti.
SOGNO
Tema strettamente legato al precedente.
C’è un entusiasmo onirico che permea l’intera storia, il protagonista ha necessità di vivere nel sogno, poiché la realtà è molto più squallida; passeggia di notte o a città vuota, immaginando di parlare con le case, le strade, la natura attorno a lui.
Le notti bianche stesse danno questa sensazione onirica molto intesa, riflettendo la vita del protagonista, che ritiene reale solo ciò che non lo è (la sua felicità è in realtà un’illusione perché Nasten’ka non lo ama).
La stessa Nsten’ka poi, si illude di amare il sognatore, ma capisce alla fine di non esserne innamorata.
Infine, elemento molto importante, i protagonisti maschili non hanno nomi, proprio come i sognatori e protagonisti dei sogni, che non hanno mai un’identità ben definita.
AMORE/AMICIZIA
Questi sono due elementi contrapposti ma allo stesso tempo intersecati; Nasten’ka è innamorata dell’amore del protagonista, che le fa credere di poter fuggire dalla nonna.
Il protagonista, invece, è innamorato dell’idea che si è fatto di lei, che in realtà è una ragazza, giovane, inesperta e piuttosto incolta, in contrapposizione con l’anima letteraria e letterata del protagonista (che in realtà è lo stesso Dostoevskij) e la maturità dell’inquilino amato.
SCONFITTA/SFRUTTAMENTO
Anche questo derivante dal tema principale dell’illusione vs le realtà, esplicita la difficoltà di vivere nel mondo moderno (tema ancor oggi di grande attualità), che non è in grado di capire i sentimenti del sognatore. Lui è un uomo buono e sincero, non è un inetto, seppur si sia rassegnato a non avere l’amore; è grato a Nasten’ka per avergli fatto provare un momento di felicità, si accontenta di vederla in amicizia poiché vuole il suo bene.
Alla fine della proficua e strutturalmente inusuale discussione, Cecilia chiede: “non avete mai pensato che potesse essere tutto un sogno?”. Tutti rispondiamo. “No!”, lasciando così nessun altro appiglio di confronto!
VOTI
Giulia 8,5: intenso, pieno, coinvolgente, non succede niente ma succede “tutto”
Laura 8: interessante per l’ambientazione e le tematiche, ma troppo “zuccheroso”
Giorgio 8,5: non è nelle sue corde; è pesante ma non noioso, profondo, contemporaneo, intensamente introspettivo
Silvia 8: all’inizio è stato una barriera, una lettura impegnativa ma intensa, un condensato di personaggi, ambientazione, profondità
Valentina 7,5: bello ma incompiuto, le manca la reazione finale.
Anna 8,5: intenso, coinvolgente, dolce. Leggerà ancora Dostoevskij
Cecilia 7: non apprezza l’inettitudine del protagonista, finale triste e deludente, stile pesante. Degna di nota l’ambientazione, i dialoghi con
Nasten’ka, i personaggi, i contrasti. Comunque coinvolgente.
Cecilia legge il titolo del prossimo libro, scelto da Elena: "Nel guscio", di Ian McEwan.
Trentaquattresimo incontro
"Le notti bianche" di Fedor Dostoevskij
Incontro del 28 Gennaio 2018, a casa di Cecilia che ha proposto la lettura e modera la discussione
Presenti: Anna, Valentina, Silvia, Laura, Giulia e Cecilia
Nessun uditore
L’incontro, con Cecilia come chairwoman, si svolge in quel di Cesta in modo inusuale ed innovativo sia per struttura che per organizzazione dei contenuti.
Cecilia ci spiega che darà all’uditorio alcuni input, sui quali si svolgerà successivamente una discussione non solo orale ma anche “visiva”.
INPUT 1: Biografia dell’autore
Fedor Dostoevskij nasce a Mosca nel 1821 da una famiglia nobile, benestante, colta e numerosa (avrà sei fratelli). A causa di una serie di traumi, diventa, adolescente, epilettico. Il padre è medico ed è un tipo stravagante e dispotico, mentre la madre è commerciante e lo educa all’amore, alla musica alla letteratura. Quando la madre muore di tisi, viene iscritto, controvoglia, alla scuola del genio militare di San Pietroburgo. Appena terminati gli studi militari torna ad interessarsi di letteratura e comincia a vivere di traduzioni dal francese. Lotta contro la povertà e la salute cagionevole, si ritira ed inizia a scrivere, trasmettendo la sofferenza dell’uomo degradato e incompreso.
A causa della frequentazione di ambienti rivoluzionari viene imprigionato e condannato a morte, ma al momento dell’esecuzione, quando è già sul patibolo, la pena viene trasformata in 4 anni di lavori forzati e viene spedito in Siberia.
Finito di scontare la pena, nel 1857 si sposa con la prima moglie Marija, già vedova con un figlio e che muore dopo qualche anno; Fedor allora viaggia in Europa e gioca d’azzardo, cercando di risolvere le proprie difficoltà economiche, che invece peggiorano ulteriormente.
Nel 1967 si sposa una seconda volta con Anna, hanno una figlia che muore a 3 mesi, poi hanno altri due figli; il quarto figlio muore di epilessia, la stessa malattia del padre.
Lettura e scrittura sono sempre state presenti nella sua vita, e a partire dagli anni 70 dell’800 iniziano finalmente a dare anche un sostentamento economico importante, oltre ad ottenere molti apprezzamenti (ma anche critiche) dai letterati dell’epoca. I riconoscimenti continuano ad arrivare, permettendogli finalmente di vivere una vita agiata a San Pietroburgo.
Muore di enfisema polmonare a San Pietroburgo nel 1881, il 28 Gennaio (la data del nostro incontro!).
INPUT 2: Film “Le notti bianche” di Luchino Visconti, 1957
Cecilia ci fa vedere alcuni spezzoni, che ci fanno capire che il film è stato ”adattato” al pubblico italiano, tradendo il libro sia dal punto di vista dell’ambientazione, che della trama.
E’ ambientato in Italia, durante delle sere d’inverno (nevica!); è molto più corale, molte scene sono contornate da tante persone (es. scena del ballo, passeggiate per strada).
La lettera che Nasten’ka (nel film: Natalia) vuol far recapitare all’amato nel film Natalia detta il testo mentre nel libro lei l’ha già scritta.
INPUT 3: opinioni scaricate dal web di 45 lettori de “Le notti bianche”
Cecilia ci mette a disposizione delle opinioni di lettori sconosciuti sul libro in questione; ognuno di noi deve sceglierne qualcuna tra quelle che lo colpiscono di più ed utilizzarle come base di confronto e spunto per la successiva discussione finale.
SVOLGIMENTO DELLA DISCUSSIONE
La discussione si realizza grazie ad un cartellone, su cui ognuno di noi ha attaccato dei post-it in cui ha segnato i temi che voleva discutere.
Tutti i post-it sono poi stati raggruppati per somiglianza di argomento, trovando quindi 4 macro-argomenti, elencati di seguito.
GIORNO/NOTTE – SPAZIO/TEMPO – ILLUSIONE/REALTA’
È il tema più importante del libro, su cui è incentrata l’intera storia. Assume diverse forme, sia materiali (giorno vs notte), sia immateriali (spazio vs tempo, illusione vs realtà).
La storia si svolge durante quattro notti, ma si conclude brutalmente un mattino.
Il concetto dello spazio/tempo sembra non esserci, ma è importante proprio per questo; non ci sono descrizioni dettagliate né del contesto fisico in cui i protagonisti si trovano, né ci sono dettagli di orario (a parte l’orario dell’appuntamento con l’amato).
La dualità dell’illusione vs la realtà è altamente significativa e mai esplicitamente “rivelata”; fino ad un certo punto, non è chiaro a nessuno dei protagonisti, né al lettore, se stanno credendo in quello che vivono o se vivono credendo di essere felici. Questa dualità si trasferisce inevitabilmente alla vita ai giorni nostri: siamo connessi con il mondo attraverso il web (Facebook, Instagram), ma siamo diventati fondamentalmente delle persone sole, con una “cyber-vita” che fa apparentemente credere a tutti, noi inclusi, che siamo felici.
Lo stesso titolo rimanda a due concetti: quello delle notti bianche di Giugno nel nord della Russia, durante le quali c’è sempre luce e quello delle notti in bianco, passate senza dormire.
L’intero racconto, poi, si sviluppa sempre su due registri contrapposti: quello lento, che caratterizza il sogno, l’illusione, l’interiorità del protagonista, e quello veloce, tipico di Nasten’ka, che è curiosa, descrive la sua vita e la sua “realtà” con dovizia di particolari, raccontando dei fatti.
SOGNO
Tema strettamente legato al precedente.
C’è un entusiasmo onirico che permea l’intera storia, il protagonista ha necessità di vivere nel sogno, poiché la realtà è molto più squallida; passeggia di notte o a città vuota, immaginando di parlare con le case, le strade, la natura attorno a lui.
Le notti bianche stesse danno questa sensazione onirica molto intesa, riflettendo la vita del protagonista, che ritiene reale solo ciò che non lo è (la sua felicità è in realtà un’illusione perché Nasten’ka non lo ama).
La stessa Nsten’ka poi, si illude di amare il sognatore, ma capisce alla fine di non esserne innamorata.
Infine, elemento molto importante, i protagonisti maschili non hanno nomi, proprio come i sognatori e protagonisti dei sogni, che non hanno mai un’identità ben definita.
AMORE/AMICIZIA
Questi sono due elementi contrapposti ma allo stesso tempo intersecati; Nasten’ka è innamorata dell’amore del protagonista, che le fa credere di poter fuggire dalla nonna.
Il protagonista, invece, è innamorato dell’idea che si è fatto di lei, che in realtà è una ragazza, giovane, inesperta e piuttosto incolta, in contrapposizione con l’anima letteraria e letterata del protagonista (che in realtà è lo stesso Dostoevskij) e la maturità dell’inquilino amato.
SCONFITTA/SFRUTTAMENTO
Anche questo derivante dal tema principale dell’illusione vs le realtà, esplicita la difficoltà di vivere nel mondo moderno (tema ancor oggi di grande attualità), che non è in grado di capire i sentimenti del sognatore. Lui è un uomo buono e sincero, non è un inetto, seppur si sia rassegnato a non avere l’amore; è grato a Nasten’ka per avergli fatto provare un momento di felicità, si accontenta di vederla in amicizia poiché vuole il suo bene.
Alla fine della proficua e strutturalmente inusuale discussione, Cecilia chiede: “non avete mai pensato che potesse essere tutto un sogno?”. Tutti rispondiamo. “No!”, lasciando così nessun altro appiglio di confronto!
VOTI
Giulia 8,5: intenso, pieno, coinvolgente, non succede niente ma succede “tutto”
Laura 8: interessante per l’ambientazione e le tematiche, ma troppo “zuccheroso”
Giorgio 8,5: non è nelle sue corde; è pesante ma non noioso, profondo, contemporaneo, intensamente introspettivo
Silvia 8: all’inizio è stato una barriera, una lettura impegnativa ma intensa, un condensato di personaggi, ambientazione, profondità
Valentina 7,5: bello ma incompiuto, le manca la reazione finale.
Anna 8,5: intenso, coinvolgente, dolce. Leggerà ancora Dostoevskij
Cecilia 7: non apprezza l’inettitudine del protagonista, finale triste e deludente, stile pesante. Degna di nota l’ambientazione, i dialoghi con
Nasten’ka, i personaggi, i contrasti. Comunque coinvolgente.
Cecilia legge il titolo del prossimo libro, scelto da Elena: "Nel guscio", di Ian McEwan.
Re: VERBALI degli Incontri
Ravalle (Fe), 27 Maggio 2018
NEL GUSCIO, di Ian McEwan (libro proposto da Elena)
Partecipanti: Elena, Francesca, Giulia, Laura R., Laura F., Giorgio, Anna, Valentina. Cecilia partecipa in qualità di uditore.
Il romanzo in oggetto è una rivisitazione in chiave moderna dell’Amleto di Shakespeare (1600, “essere o non essere”).
I parallelismi tra il libro di McEwan e l’opera shakespiriana sono plurimi: nell’Amleto, il fantasma del padre del protagonista chiede al figlio (Amleto) di vendicarlo per aver subito la morte inflittagli dalla moglie e dal fratello (nonché amante della moglie). Analogamente, ne “Nel guscio” assistiamo ad una storia di un uomo (John Cairncross) che viene ucciso dalla moglie e dal suo amante, che è anche il fratello di John. La moglie Trudy è incinta del figlio di John, un “feto” che è il narratore-protagonista del racconto e che, alla fine, riuscirà a vendicare la morte del padre facendo arrestare la madre e lo zio. Il feto, pertanto, non è altro che un moderno Amleto; lo zio di Amleto (Claudio) è rappresentato Claude (zio del feto); infine, la mamma di Amleto (Gertrude) è ripresa dal personaggio di Trudy (mamma del feto). Il parallelismo tra i personaggi delle due opere è evidenziato anche dall’uso di nomi pressoché identici (Claudio è Claude; Gertrude è Trudy). Anche le modalità con cui viene perpetrato l’omicidio di John sono analoghe a quelle impiegate per uccidere il re di Danimarca, padre di Amleto: in entrambi i casi viene usato del veleno (nell’Amleto, però, il veleno viene versato nell’orecchio della vittima, mentre ne “nel guscio” è somministrato alla vittima con un frullato di frutta -> a pag. 103 McEwan, con velata ironia, riprende questo parallelismo nel passo in cui gli amanti assassini dicono che, per farla franca, avrebbero dovuto versare nell’orecchio di John un antistaminico, come avevano fatto i russi per uccidere una scomoda spia ).
Per riprendere ancora Amleto, la fatidica domanda che si pone il protagonista shakespiriano “essere o non essere?” non è altro che il quesito che il feto, protagonista de “Nel guscio”, si pone per tutta la durata del racconto: in che stadio dell’esistenza di trova il bambino? Esiste già come entità autonoma?
Già si è detto come il feto sia il narratore-protagonista dell’intera narrazione. Il libro è un lungo monologo del feto, interrotto dai dialoghi degli altri personaggi (non sempre chiari).
La scrittura è elegante, ricca. Il narratore, pur essendo un feto, fa riflessioni molto consapevoli riguardo alla vita e alla condizione umana. Vi sono continui riferimenti alla situazione politica e sociale mondiale. Come è possibile che un feto conosca già tutte queste cose e abbia a disposizione tutte queste informazioni? Egli (fin dall’inizio tutti abbiamo pensato che il feto fosse un maschio) conosce il mondo attraverso i 5 sensi. Ascolta la radio e i podcast che ascolta la madre, sente i discorsi delle persone a lui vicine. Non vede il mondo attraverso la vista, ma usa l’udito, il gusto e il tatto. Inoltre, percepisce le reazioni fisiche e fisiologiche della madre. Conosce tante cose perché si trova in una specie di “limbo esistenziale” che sfiora l’onniscienza. Ci siamo chiesti se, una volta nato, egli dimenticherà tutto… Per Giorgio e Laura sì, ma per Giulia no: il fatto che il bimbo riconosca la mamma e il colore azzurro che si era immaginato durante la vita intrauterina fa pensare che non si sia dimenticato tutto. Forse, appena nato si ricorda ancora un po’ le cose come nel torpore di un sogno ma poi dimenticherà tutto…? È tutto molto interpretabile.
Posto che Trudy non si cura del figlio e beve senza ritegno, il feto diventa un estimatore di vini. Secondo Valentina, la descrizione dei vini è troppo boriosa; si tratta di un esercizio di stile esagerato, dove McEwan indugia in dettagli e considerazioni quasi snob. È forse un espediente narrativo per evidenziare il contrasto tra il fatto che lui sia (solo) un feto e il fatto che sappia tutte queste cose? Può darsi…
Giulia e Francesca hanno trovato l’introduzione molto inquietante: non riuscivano ad inquadrare il fatto che un feto potesse essere così riflessivo e potesse conoscere così tante cose. Si fa fatica ad entrare nel contesto. Ma poi si entra in confidenza con questo piccolo essere e con la sua dimensione.
Laura R. ha provato inquietudine nel leggere i passaggi in cui viene narrato l’omicidio di John. Non si aspettava che fosse proprio Trudy ad uccidere il marito.
Claude è per tutti una figura desolante, inetta, stupida, vuota ed egoista.
John viene riabilitato dal fatto di aver fatto credere a T. e C. di avere una relazione con la poetessa delle civette, perché all’inizio sembrava molto sottomesso, zerbino e succube.
È stato per tutti un libro molto innovativo e originale, soprattutto per il fatto che il narratore è un nascituro. Si tratta di una prospettiva mai incontrata prima (almeno per noi). È un racconto che suscita emozioni e fa riflettere.
Laura F. ritiene sia stata una lettura a tratti inquietante: ti accorgi di non avere una tua privacy, perché il feto sa tutto quello che fai e che dici. Egli è una parte della mamma, ma tu pensi che non sia una “parte pensante”. Invece nell’ottica del romanzo lo è.
Nel libro c’è molto Inghilterra: si parla della famiglia reale inglese, emergono molte consuetudini del vivere britannico (cibi, bevande, casa con moquette…). Emerge altresì la tipica anaffettività e freddezza/distacco rispetto al bambino, tipica dei popoli nordici e molto lontana dal nostro sentire mediterraneo.
È ricorrente in tutta l’opera il rapporto di ODIO/AMORE che il bambino prova nei confronti della madre: a tratti la odia, perché tradisce suo padre e pianifica la sua uccisione portandola a termine con efferatezza. Ma non riesce a non amarla perché comunque è sua madre e la sua esistenza dipende da lei. Non c’è un contrasto tra i due sentimenti, ma si tratta di emozioni che coesistono. Sono due facce della stessa medaglia.
Ad Elena è piaciuto lo stile, ma la storia in sé non l’ha appassionata, voto 7. A Giulia e Francesca è piaciuta l’idea innovativa del punto di vista del narratore-feto, voto 9. A Giorgio è piaciuto lo stile (l’ha letto in inglese). Per lui è stata bellissima l’idea del feto narratore. Era partito scettico, ma si è ricreduto fin da subito, voto 8 e mezzo. Per Anna il libro è originale, sensoriale, scritto bene. Aveva già apprezzato McEwan in Espiazione, voto 8 e mezzo. Per Laura R, John non doveva morire; è troppo triste, voto 7. Per Laura F. il libro è scritto bene e l’idea è geniale, voto 8. Per Valentina l’autore ha tenuto alta l’attenzione pur essendo il finale abbastanza prevedibile, voto 8.
Il prossimo libro, proposto da Elisabetta, è La lettera di W. S. Maugham.
NEL GUSCIO, di Ian McEwan (libro proposto da Elena)
Partecipanti: Elena, Francesca, Giulia, Laura R., Laura F., Giorgio, Anna, Valentina. Cecilia partecipa in qualità di uditore.
Il romanzo in oggetto è una rivisitazione in chiave moderna dell’Amleto di Shakespeare (1600, “essere o non essere”).
I parallelismi tra il libro di McEwan e l’opera shakespiriana sono plurimi: nell’Amleto, il fantasma del padre del protagonista chiede al figlio (Amleto) di vendicarlo per aver subito la morte inflittagli dalla moglie e dal fratello (nonché amante della moglie). Analogamente, ne “Nel guscio” assistiamo ad una storia di un uomo (John Cairncross) che viene ucciso dalla moglie e dal suo amante, che è anche il fratello di John. La moglie Trudy è incinta del figlio di John, un “feto” che è il narratore-protagonista del racconto e che, alla fine, riuscirà a vendicare la morte del padre facendo arrestare la madre e lo zio. Il feto, pertanto, non è altro che un moderno Amleto; lo zio di Amleto (Claudio) è rappresentato Claude (zio del feto); infine, la mamma di Amleto (Gertrude) è ripresa dal personaggio di Trudy (mamma del feto). Il parallelismo tra i personaggi delle due opere è evidenziato anche dall’uso di nomi pressoché identici (Claudio è Claude; Gertrude è Trudy). Anche le modalità con cui viene perpetrato l’omicidio di John sono analoghe a quelle impiegate per uccidere il re di Danimarca, padre di Amleto: in entrambi i casi viene usato del veleno (nell’Amleto, però, il veleno viene versato nell’orecchio della vittima, mentre ne “nel guscio” è somministrato alla vittima con un frullato di frutta -> a pag. 103 McEwan, con velata ironia, riprende questo parallelismo nel passo in cui gli amanti assassini dicono che, per farla franca, avrebbero dovuto versare nell’orecchio di John un antistaminico, come avevano fatto i russi per uccidere una scomoda spia ).
Per riprendere ancora Amleto, la fatidica domanda che si pone il protagonista shakespiriano “essere o non essere?” non è altro che il quesito che il feto, protagonista de “Nel guscio”, si pone per tutta la durata del racconto: in che stadio dell’esistenza di trova il bambino? Esiste già come entità autonoma?
Già si è detto come il feto sia il narratore-protagonista dell’intera narrazione. Il libro è un lungo monologo del feto, interrotto dai dialoghi degli altri personaggi (non sempre chiari).
La scrittura è elegante, ricca. Il narratore, pur essendo un feto, fa riflessioni molto consapevoli riguardo alla vita e alla condizione umana. Vi sono continui riferimenti alla situazione politica e sociale mondiale. Come è possibile che un feto conosca già tutte queste cose e abbia a disposizione tutte queste informazioni? Egli (fin dall’inizio tutti abbiamo pensato che il feto fosse un maschio) conosce il mondo attraverso i 5 sensi. Ascolta la radio e i podcast che ascolta la madre, sente i discorsi delle persone a lui vicine. Non vede il mondo attraverso la vista, ma usa l’udito, il gusto e il tatto. Inoltre, percepisce le reazioni fisiche e fisiologiche della madre. Conosce tante cose perché si trova in una specie di “limbo esistenziale” che sfiora l’onniscienza. Ci siamo chiesti se, una volta nato, egli dimenticherà tutto… Per Giorgio e Laura sì, ma per Giulia no: il fatto che il bimbo riconosca la mamma e il colore azzurro che si era immaginato durante la vita intrauterina fa pensare che non si sia dimenticato tutto. Forse, appena nato si ricorda ancora un po’ le cose come nel torpore di un sogno ma poi dimenticherà tutto…? È tutto molto interpretabile.
Posto che Trudy non si cura del figlio e beve senza ritegno, il feto diventa un estimatore di vini. Secondo Valentina, la descrizione dei vini è troppo boriosa; si tratta di un esercizio di stile esagerato, dove McEwan indugia in dettagli e considerazioni quasi snob. È forse un espediente narrativo per evidenziare il contrasto tra il fatto che lui sia (solo) un feto e il fatto che sappia tutte queste cose? Può darsi…
Giulia e Francesca hanno trovato l’introduzione molto inquietante: non riuscivano ad inquadrare il fatto che un feto potesse essere così riflessivo e potesse conoscere così tante cose. Si fa fatica ad entrare nel contesto. Ma poi si entra in confidenza con questo piccolo essere e con la sua dimensione.
Laura R. ha provato inquietudine nel leggere i passaggi in cui viene narrato l’omicidio di John. Non si aspettava che fosse proprio Trudy ad uccidere il marito.
Claude è per tutti una figura desolante, inetta, stupida, vuota ed egoista.
John viene riabilitato dal fatto di aver fatto credere a T. e C. di avere una relazione con la poetessa delle civette, perché all’inizio sembrava molto sottomesso, zerbino e succube.
È stato per tutti un libro molto innovativo e originale, soprattutto per il fatto che il narratore è un nascituro. Si tratta di una prospettiva mai incontrata prima (almeno per noi). È un racconto che suscita emozioni e fa riflettere.
Laura F. ritiene sia stata una lettura a tratti inquietante: ti accorgi di non avere una tua privacy, perché il feto sa tutto quello che fai e che dici. Egli è una parte della mamma, ma tu pensi che non sia una “parte pensante”. Invece nell’ottica del romanzo lo è.
Nel libro c’è molto Inghilterra: si parla della famiglia reale inglese, emergono molte consuetudini del vivere britannico (cibi, bevande, casa con moquette…). Emerge altresì la tipica anaffettività e freddezza/distacco rispetto al bambino, tipica dei popoli nordici e molto lontana dal nostro sentire mediterraneo.
È ricorrente in tutta l’opera il rapporto di ODIO/AMORE che il bambino prova nei confronti della madre: a tratti la odia, perché tradisce suo padre e pianifica la sua uccisione portandola a termine con efferatezza. Ma non riesce a non amarla perché comunque è sua madre e la sua esistenza dipende da lei. Non c’è un contrasto tra i due sentimenti, ma si tratta di emozioni che coesistono. Sono due facce della stessa medaglia.
Ad Elena è piaciuto lo stile, ma la storia in sé non l’ha appassionata, voto 7. A Giulia e Francesca è piaciuta l’idea innovativa del punto di vista del narratore-feto, voto 9. A Giorgio è piaciuto lo stile (l’ha letto in inglese). Per lui è stata bellissima l’idea del feto narratore. Era partito scettico, ma si è ricreduto fin da subito, voto 8 e mezzo. Per Anna il libro è originale, sensoriale, scritto bene. Aveva già apprezzato McEwan in Espiazione, voto 8 e mezzo. Per Laura R, John non doveva morire; è troppo triste, voto 7. Per Laura F. il libro è scritto bene e l’idea è geniale, voto 8. Per Valentina l’autore ha tenuto alta l’attenzione pur essendo il finale abbastanza prevedibile, voto 8.
Il prossimo libro, proposto da Elisabetta, è La lettera di W. S. Maugham.
Verbale "La lettera"di W. S. Maugham
Verbale dell'incontro avente ad oggetto "La Lettera" di W.S. Maugham
Re: VERBALI degli Incontri
Verbale redatto da Silvia Callegari
“Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani
Incontro del 2 febbraio 2019
Presenti: Giulia (moderatrice), Anna, Francesca, Laura.
Presenti in qualità di uditrici: Elena e Silvia.
“Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell’anno non volare. Non volare mai!” Questa la premessa del viaggio che Tiziano Terzani intraprese nel 1993 e le cui avvincenti memorie sono racchiuse nel libro scelto da Giulia per questo incontro. La profezia è soltanto la scusa “ufficiale” per riappropriarsi di un modo di viaggiare ormai perduto, lento e faticoso ma senza dubbio più autentico (“Quel che non riuscii a togliermi di dosso era il ricordo inquietante di quella enorme massa di umanità disperata, disorientata, avida e adirata che, dal Vietnam alla Cina, dalla Mongolia alla Russia, mi ero lasciato dietro. Avessi viaggiato in aereo, non l’avrei mai vista.”)
Viaggiando in treno, in auto, in nave e a volte anche a piedi, Tiziano Terzani ci offre una prospettiva diversa da cui guardare all’Oriente, e, attraverso il suo cammino scopriamo un continente affascinante ma non privo di contraddizioni, diviso tra la difesa della tradizione e l’apertura al progresso occidentale. Anna individua perfettamente la natura del libro: è “una porta sull’Asia” che, pur “aperta” nel 1993 risulta ancora di grande attualità nelle sue osservazioni più profonde. Il giudizio sul processo di globalizzazione, ad esempio, è il medesimo di oggi: essa si traduce nella perdita d’identità dei popoli (“C’è qualcosa di tragico in questo continente, che così gioiosamente uccide se stesso”). In proposito, Francesca sottolinea la forte avversione dell’autore verso ogni forma di estremismo, fondamentalismo e perdita di identità, unicità e tradizioni, in nome del presunto progresso (Giulia ricorda, ad esempio, l’influenza del modello occidentale nell’architettura cinese: le porte delle abitazioni più antiche erano sopraelevate rispetto alla strada per proteggere gli abitanti dagli spiriti che, nelle credenze popolari, si muovono strisciando. Una tradizione destinata a perdersi nel tempo poiché le nuove abitazioni l’hanno abbandonata, tradendo la spiritualità orientale, e uniformandosi, ancora una volta, al razionale modello occidentale).
Terzani incontrerà in ogni luogo l’indovino più esperto: talvolta le predizioni si ripeteranno permettendoci di scoprire la facilità con cui l’uomo, se vuole credere alla profezia, riesce a plasmare le parole dell’indovino sulla propria vita passata, ricavandone conferma della veridicità della predizione. Ogni indovino, ricorda Giulia, adatta la propria divinazione alle peculiarità del luogo e delle usanze locali (si ricordi l’importanza del denaro e dell’arricchimento per la società cinese), rispondendo all’umana necessità di credere che vi sia un fato, un destino superiore che governa gli accadimenti.
Nelle sue descrizioni Terzani è obiettivo, evidentemente innamorato dell’Oriente e avendo lui stesso abbracciato abitudini orientali, non risparmia comunque critiche e descrizioni dure delle realtà più scioccanti del continente.
La narrazione, osserva Francesca, risulta spesso rallentata dai numerosi dettagli storici forniti dall’autore; Giulia, pur ritenendo la narrazione fluida, conferma di aver trovato eccessivi i riferimenti a nomi di luoghi e date che rischiano di distrarre il lettore.
La discussione si sofferma sulla decisione dell’autore di intraprendere un viaggio così lungo e sul modo di conciliare tutto ciò con la propria famiglia: la riflessione si incentra, quindi, sulle difficoltà odierne, soprattutto femminili, di conciliare esigenze lavorative e familiari. Ciò dimostra come anche su questa tematica il libro di Terzani sia estremamente attuale.
La natura del libro, il suo essere un diario di bordo, un racconto di viaggio, a tratti un reportage giornalistico, rende inopportuno, come sottolinea Francesca, procedere alla votazione che, nei futuri incontri, sarà abbandonata.
Silvia propone il titolo del prossimo libro “Zazie nel metrò” di Raymond Queneau.
“Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani
Incontro del 2 febbraio 2019
Presenti: Giulia (moderatrice), Anna, Francesca, Laura.
Presenti in qualità di uditrici: Elena e Silvia.
“Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell’anno non volare. Non volare mai!” Questa la premessa del viaggio che Tiziano Terzani intraprese nel 1993 e le cui avvincenti memorie sono racchiuse nel libro scelto da Giulia per questo incontro. La profezia è soltanto la scusa “ufficiale” per riappropriarsi di un modo di viaggiare ormai perduto, lento e faticoso ma senza dubbio più autentico (“Quel che non riuscii a togliermi di dosso era il ricordo inquietante di quella enorme massa di umanità disperata, disorientata, avida e adirata che, dal Vietnam alla Cina, dalla Mongolia alla Russia, mi ero lasciato dietro. Avessi viaggiato in aereo, non l’avrei mai vista.”)
Viaggiando in treno, in auto, in nave e a volte anche a piedi, Tiziano Terzani ci offre una prospettiva diversa da cui guardare all’Oriente, e, attraverso il suo cammino scopriamo un continente affascinante ma non privo di contraddizioni, diviso tra la difesa della tradizione e l’apertura al progresso occidentale. Anna individua perfettamente la natura del libro: è “una porta sull’Asia” che, pur “aperta” nel 1993 risulta ancora di grande attualità nelle sue osservazioni più profonde. Il giudizio sul processo di globalizzazione, ad esempio, è il medesimo di oggi: essa si traduce nella perdita d’identità dei popoli (“C’è qualcosa di tragico in questo continente, che così gioiosamente uccide se stesso”). In proposito, Francesca sottolinea la forte avversione dell’autore verso ogni forma di estremismo, fondamentalismo e perdita di identità, unicità e tradizioni, in nome del presunto progresso (Giulia ricorda, ad esempio, l’influenza del modello occidentale nell’architettura cinese: le porte delle abitazioni più antiche erano sopraelevate rispetto alla strada per proteggere gli abitanti dagli spiriti che, nelle credenze popolari, si muovono strisciando. Una tradizione destinata a perdersi nel tempo poiché le nuove abitazioni l’hanno abbandonata, tradendo la spiritualità orientale, e uniformandosi, ancora una volta, al razionale modello occidentale).
Terzani incontrerà in ogni luogo l’indovino più esperto: talvolta le predizioni si ripeteranno permettendoci di scoprire la facilità con cui l’uomo, se vuole credere alla profezia, riesce a plasmare le parole dell’indovino sulla propria vita passata, ricavandone conferma della veridicità della predizione. Ogni indovino, ricorda Giulia, adatta la propria divinazione alle peculiarità del luogo e delle usanze locali (si ricordi l’importanza del denaro e dell’arricchimento per la società cinese), rispondendo all’umana necessità di credere che vi sia un fato, un destino superiore che governa gli accadimenti.
Nelle sue descrizioni Terzani è obiettivo, evidentemente innamorato dell’Oriente e avendo lui stesso abbracciato abitudini orientali, non risparmia comunque critiche e descrizioni dure delle realtà più scioccanti del continente.
La narrazione, osserva Francesca, risulta spesso rallentata dai numerosi dettagli storici forniti dall’autore; Giulia, pur ritenendo la narrazione fluida, conferma di aver trovato eccessivi i riferimenti a nomi di luoghi e date che rischiano di distrarre il lettore.
La discussione si sofferma sulla decisione dell’autore di intraprendere un viaggio così lungo e sul modo di conciliare tutto ciò con la propria famiglia: la riflessione si incentra, quindi, sulle difficoltà odierne, soprattutto femminili, di conciliare esigenze lavorative e familiari. Ciò dimostra come anche su questa tematica il libro di Terzani sia estremamente attuale.
La natura del libro, il suo essere un diario di bordo, un racconto di viaggio, a tratti un reportage giornalistico, rende inopportuno, come sottolinea Francesca, procedere alla votazione che, nei futuri incontri, sarà abbandonata.
Silvia propone il titolo del prossimo libro “Zazie nel metrò” di Raymond Queneau.